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Il senso della vita

Nuovo appuntamento con la rubrica Spazio Psicologico in collaborazione con l'associazione Psicologi Liberi Professionisti

di Elisa Mulone e Antonio Zuliani – da Il libero professionista reloaded #4

 

Questi ultimi due anni sono stati caratterizzati da una sequenza di eventi che hanno modificato il rapporto delle persone con la realtà esterna come abbiamo imparato a conoscerla negli ultimi 70-80 anni.

Per avviare un’analisi in merito, sembra utile partire dai due fatti che stanno caratterizzando questi temi: il Covid e la guerra in Ucraina.

Rispetto al Covid si è molto discusso di quello che viene definito come long-covid soffermandosi sulle possibili conseguenze fisiche del virus anche nel tempo. Meno si è osservato il cambiamento, non tanto derivato dal contagio, quanto dal modo in cui le persone si rapportano con la realtà.

Assistiamo all’intrecciarsi di alcuni fenomeni da analizzare con attenzione:

  • un aumento significativo dei piccoli incidenti sul lavoro le cui prime cause sono identificate dai ricercatori in una “distrazione” legata al fatto che l’attenzione è assorbita da altre preoccupazioni (contagio prima, futuro economico dopo. Aspetto che si somma con la guerra in Ucraina);
  • la sempre maggior difficoltà di trovare risorse di lavoro in ampi settori produttivi.
  • il fenomeno dell’abbandono spontaneo del luogo di lavoro, anche nella prospettiva del non ritorno al lavoro con la cessazione dello smart-working senza un’alternativa disponibile.

Su quest’ultimo fenomeno, a cui abbiamo accennato in un precedente contributo della rubrica Spazio psicologico, vogliamo soffermarci. Il termine “Great Resignation”, letteralmente tradotto come “Grandi dimissioni”, indica il fenomeno per cui uno studio di McKinsey stima che nel mondo circa il 40% dei lavoratori è intenzionato a cambiare posizione lavorativa nei prossimi mesi. In Italia, nei primi mesi del 2021, sono state registrate quasi mezzo milione di dimissioni spontanee. Da una ricerca promossa da Aidp, Associazione italiana per la direzione del personale, su una fascia d’età compresa tra i 26 e i 35 anni seguiti dalla fascia 36-45 anni, emerge che tra le motivazioni addotte, il 25% del campione indagato dichiara di essere alla ricerca di un nuovo senso di vita e il 20% attribuisce la scelta ad un clima di lavoro negativo.

Ritenere che tutto ciò sia la manifestazione di una patologia e che con una debita cura, magari di tipo psicologico, il tutto possa rientrare, non tiene conto della possibilità che siamo di fronte a una significativa modifica di parametri culturali rispetto al lavoro stesso, e ignora come la Pandemia abbia messo in discussione la precedente visione del lavoro e del proprio investimento in esso, rivalutando la qualità delle relazioni e del clima lavorativo, nonché il tempo impiegato per la propria vita personale e il rispetto dei propri valori in ordine di priorità.

Quali possono essere alcuni predittori del fenomeno?

Secondo uno studio di Donald e Charles Sull e Ben Zweig uno di essi è la cosiddetta “cultura tossica”.

Sappiamo quanto la cultura organizzativa, ossia l’insieme di valori e idee condivise che sono alla base dell’identità di una organizzazione, sia basilare per la crescita più o meno funzionale di una determinata organizzazione. Gli elementi principali che contribuiscono alle culture tossiche sarebbero: l’incapacità di promuovere la diversità, l’equità e l’inclusione; la mancanza di rispetto verso i lavoratori e il comportamento non etico dell’azienda.

Altro fattore individuato riguarda la precarietà e la riorganizzazione del lavoro. L’instabilità occupazionale e le ristrutturazioni organizzative sembrano influenzare il turnover dei dipendenti che, a sono scoraggiati dalle scarse prospettive di carriera e dalla precarietà del lavoro svolto.

Lo studio ha rilevato inoltre che società particolarmente innovative come Nvidia, Tesla e SpaceX hanno tassi di licenziamento tre deviazioni standard superiori a quelle dei rispettivi settori, probabilmente perché, stare al passo con l’innovazione, richiede ai lavoratori maggiore impegno di tempo e ritmi di lavoro più sostenuti, con relativo carico di stress, rispetto ai lavoratori di aziende che hanno ritmi di crescita più lenti. Il lavoro può essere eccitante e soddisfacente, ma anche difficile da sostenere a lungo termine: non dimentichiamo che il ritmo di adeguamento del nostro cervello al mutare della realtà è molto più lenta della velocità degli stimoli che lo raggiungono.

Lo studio ha rilevato, altresì, che le aziende che non danno il giusto riconoscimento e non premiano le prestazioni dei propri lavoratori hanno tassi di licenziamento maggiori, rischiando di perdere proprio i lavoratori più brillanti e più produttivi. Altro elemento che favorisce la scelta di lasciare il proprio lavoro è l’insoddisfazione per le inadeguate politiche di welfare.

 

Cosa aiuta a depotenziare il fenomeno?

 

Lo studio precedentemente citato individua alcune azioni per favorire la fidelizzazione dei lavoratori:

  • offrire possibilità di sviluppo di carriera anche laterale e non solo verticale;
  • organizzare attività sociali aziendali come happy hour, escursioni di team building e altre attività al di fuori del posto di lavoro per promuovere una sana cultura aziendale;
  • offrire la possibilità di lavorare anche a distanza;
  • stabilire orari di lavoro chiari e preventivabili.

 

In riferimento alla nostra realtà nazionale, noi aggiungiamo due elementi che riteniamo fondamentali:

  • rivedere profondamente i percorsi di orientamento e avviamento al lavoro non più esclusivamente basati sul percorso formativo e sulle “attitudini”, per riscoprire il vero senso delle parole “desiderio” e “sogno”. La retribuzione sta perdendo importanza a fronte di questi altri due valori anche perché l’esperienza della povertà e/o dell’indigenza non è più un motore che sospinge le persone al lavoro come lo era prima, quantomeno per un certo gruppo di lavoratori.
  • accompagnare le persone alla ricerca di una prospettiva per il futuro. In questa direzione va recuperato il valore psicologico del termine resilienza non visto come troppo spesso accade come forza nell’affrontare le difficoltà, bensì come capacità di leggerle e di trovare dalle stesse una spinta per riformulare attivamente il proprio progetto per il futuro.

La Great Resignation non va letta come un fallimento dei progetti di vita delle persone, ma bensì come una ridefinizione di valori e priorità.

La realtà sta cambiando, occorre accettare questo fatto per esserne protagonisti.