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La dignità del lavoro ha il suo prezzo

Nuovo appuntamento con la rubrica Spazio Psicologico in collaborazione con l’associazione Psicologi Liberi Professionisti

di Elisa Mulone – da il Libero Professionista Reloaded #5

 

In questi giorni si è parlato molto dell’accordo sul salario minimo raggiunto tra il Parlamento europeo e gli Stati membri dell’UE. Certamente, garantire ai lavoratori un’adeguata retribuzione è fondamentale per migliorare condizioni di vita e lavorative, anche perché, come ha osservato Tiziano Treu: «Sono cresciuti anche i poveri che lavorano», e questo è un grande paradosso. Non credo di essere l’unica a chiedersi come mai, nel terzo millennio e nella “civilizzata” Europa, sia necessaria una normativa per garantire a un lavoratore di essere adeguatamente retribuito per le proprie prestazioni, tanto quanto basta per assicurarsi una vita dignitosa. Eppure non è poi così scontato, visto che serve una legge che lo imponga, perché giustizia sociale, equità e condizioni lavorative dignitose vanno ancora conquistate.

Una delle domande tormentone che ci viene fatta fin da piccoli è: «Cosa vuoi fare da grande?», e non è un caso. Il lavoro, infatti è, da sempre, una componente fondamenta le della nostra identità personale e sociale. Questo significa che la nostra occupazione deve sì darci il sostentamento necessario per vivere, ma deve anche dare soddisfazione personale, rispettare i nostri valori etici e valorizzare le nostre abilità. Ma se si riduce solo a un mezzo per sopravvivere, e a volte con fatica, svilisce la persona nella sua totalità. «Il lavoro è connaturato all’attività umana che lo rende tale sia come elemento creativo nella costruzione delle cose del mondo, della storia, delle relazioni sociali e della politica, sia come elemento di fatica e di sofferenza nel lungo cammino del cambiamento del mondo», scrive Pierenrico Andreoni, docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni presso l’Università di Ferrara. E Guido Sarchielli, professore emerito all’Università di Bologna, ricorda che «il lavoro è un’attività complessa, che comporta un dispendio energetico (fisico, mentale ed emozionale), basata sulle relazioni tra le persone e con oggetti e informazioni, che produce e scambia ricchezza economica e sociale. Presenta valenze positive e negative che cambiano nel corso della vita della persona e dei contesti storico-culturali».

Cambiamenti che andrebbero presi in considerazione dalle organizzazioni di qualsiasi genere. Perché le esigenze delle persone cambiano lungo il loro percorso professionale. E in tempi in cui l’età pensionabile si innalza, questi sono aspetti da non trascurare. Trovare soluzioni per valorizzare le competenze degli over 60 garantendo loro una retribuzione equa è strategico sia per le aziende sia per gli studi professionali. In Italia, la garanzia di essere retribuiti correttamente, è stabilita dalla Costituzione. L’art. 36 recita infatti: «Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Ma questo non sembra sufficiente a garantire il lavoro e i lavoratori. In misura diversa, questo riguarda anche il recente dibattito sulla norma, ancora in fase di approvazione, sull’equo compenso per i liberi professionisti, che sempre lavoratori sono. Anche in quel caso serve una norma per garantire qualcosa di costituzionalmente stabilito. Seguendo la scia del recente accordo, l’Italia ha ancora tanto da fare per migliorare le politiche del lavoro, al fine di abbassare i tassi di disoccupazione, di ridurre il divario di genere, di ridurre i livelli di povertà e per garantire a tutti «di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» come recita l’art. 4 della nostra Costituzione. È dovere delle Istituzioni favorire tutto questo.