PLP

La Grande Professione

Di Elisa Mulone (psicologa e psicoterapeuta, Presidente Nazionale PLP) e Antonio Zuliani (psicologo psicoterapeuta, membro del CEN PLP)

Cosa intendiamo per relazione medico-paziente? Letteralmente è la relazione che intercorre tra chi si prende cura e chi necessita di tali cure.

In tutti i contesti di cura medici, infermieri e altri professionisti si relazionano, necessariamente, con delle persone che, in quel momento hanno bisogno di cure. Tale relazione può assumere connotazioni differenti in funzione di diverse variabili:

  • caratteristiche personali del medico e del paziente;
  • contesto e circostanze in cui si incontrano;
  • livello di gravità della situazione da affrontare;
  • clima e collaborazione all’interno del contesto in cui si realizza l’incontro;
  • soft skill del personale curante.

Certamente non è facile lavorare costantemente con la sofferenza altrui. Il medico e i professionisti della salute, si confrontano quotidianamente con malattie, disagi, sofferenze e, non ultima, la morte dei propri pazienti. Uno dei modi per “proteggersi” da livelli di sofferenza troppo elevati consiste nell’ergere muri tra sé e la sofferenza di fronte. Allora i pazienti possono diventare numeri, organi da aggiustare, malattie da curare.

Il senso di vulnerabilità a cui la pandemia ci ha messo di fronte apre un preoccupante scenario che chiama in causa l’indubbia crisi che sta attraversando il sistema sanitario nel suo complesso. Una crisi da tempo presente, ma che proprio l’aumentato bisogno di assistenza sta evidenziando.

La pandemia ha messo in luce una crisi ben più profonda. Crisi che leggiamo, a titolo di esempio, nella mancanza di personale sanitario e, in particolare, dei medici.

C’è oggi un grande distanza tra istituzioni della salute e cittadini. Le strutture portanti come ospedali e cliniche sono iperspecializzate e curano il malato per segmenti, rispondendo all’urgenza; di contro i medici sul territorio sono ipercarichi di incombenze e di pazienti. Manca, quindi, una visione globale della persona e il cittadino è visto solo nel momento della sofferenza e mai nel suo status complessivo. Semplifico: ti aggiusto quando c’è un “pezzo” che non funziona, ma non ti considero mai nella condizione di equilibrio, quando posso evitare improvvise cadute.

In particolare, per il personale che opera in contesti particolarmente complessi è messo a dura prova. Tuttavia, noi che da psicologi siamo allenati ad accogliere la sofferenza dell’altro senza che diventi la nostra e senza bisogno di ergere muri, sappiamo che è possibile mantenere una buona relazione di fronte al grande dolore delle persone che ci chiedono aiuto.

A comprendere meglio come ciò sia possibile, ci aiutano le parole del Prof. Pietro Bagolan, direttore del Dipartimento Medico Chirurgico del feto-neonato-lattante dell’Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù” di Roma, tratte da un suo scritto dal titolo Senza càmice di fronte alla morte: “Il medico non può dare sempre la salute e tanto meno la vita. Il medico deve essere pronto a fornire sempre la cura, la migliore possibile, considerando l’insieme dei bisogni degli esseri con cui entra in contatto. Ma arriva il momento in cui la cura non è più affidata al bisturi o alla somministrazione di farmaci. Arrivati a questo punto, siamo impreparati o insufficientemente preparati, ma certi del grande peso curativo che la partecipazione e la presenza consapevole e piena possono apportare alle situazioni di crisi e di disperazione che si presentano nel nostro reparto (…) L’informazione, il colloquio, il dialogo… In definitiva: la comunicazione deve essere aperta, chiara e leale fin dall’inizio. È necessario che le persone sentano o almeno percepiscano una partecipazione all’atto medico che contenga anche qualche cosa di umano, e non solo l’esaltazione dell’atto tecnico… È necessario esercitare davvero la grande Professione”.

Un ulteriore contributo ci viene da una esperienza concreta. “Non ci si abitua mai!” disse un infermiere al sacerdote che invano cercava di consolare due genitori che avevano appena perso una figlia appena nata. Parole pronunciate con gli occhi appena lucidi e lo sguardo rivolto al corpicino senza vita di quella piccola creatura volata via come un soffio di vento. “Non ha sofferto” ha aggiunto rivolgendosi ai genitori “ha pianto un po’ soltanto per l’aghetto che abbiamo dovuto metterle sulla manina, ma è stata l’unica sua sofferenza. Ne ho visti tanti di bambini con questa patologia. Molti con altri problemi correlati, ma lei a vederla era così perfetta, così bella! Avrebbe sofferto tanto!” Parole sincere, venute dal cuore e rivolte al cuore infranto di due genitori in lutto. Forse proprio perché non si è mai abituato a vedere morire dei piccoli indifesi ha potuto compiere un gesto di vicinanza, di condivisione; nonostante la tristezza, e il senso di impotenza. L’umanizzazione delle cure, parte da piccoli, grandi gesti. Non ci sono parole giuste da dire, a volte serve solo una presenza attenta che faccia sentire le persone “prese in cura”.

Così si può dare una diagnosi o indicare un percorso di cura vedendo la persona nella sua unicità.

Ripensare a un’alleanza tra il personale sanitario e le persone di cui prendersi cura è una sfida attualissima e un dovere imprescindibile delle Istituzioni attraverso il miglioramento delle condizioni di lavoro e la messa a disposizione di strumenti per potenziare le soft skills.