PLP

La guerra … le guerre

Nuovo appuntamento con la rubrica Spazio Psicologico in collaborazione con l'associazione Psicologi Liberi Professionisti

Antonio Zuliani
Psicologo e Psicoterapeuta membro del CEN PLP

Elisa Mulone
Psicologa e Psicoterapeuta Presidente Nazionale PLP

Da giorni si aggira uno spettro di cui non avevamo immaginato la presenza: la guerra nel cuore dell’Europa. Certo nei decenni scorsi molti di noi avevano sperimentato l’angoscia nucleare ma poi, il tutto, si era gradualmente allontanato. Ci siamo a lungo raccontati di essere la prima generazione europea a vivere decine di anni senza una guerra. Ne siamo proprio sicuri? Questa illusione è persistita nonostante quello che in questi anni è accaduto nella ex Jugoslavia, nonostante la Libia, la Siria, lo Yemen, l’Afganistan, e l’elenco potrebbe continuare. Fino all’esempio del Vietnam dove molti hanno vissuto una sorta di guerra per procura. In realtà, dopo la fine della seconda guerra mondiale, abbiamo solo vissuto un lungo periodo senza guerre mondiali, memori della distruzione causata dagli ordigni atomici sganciati su Hiroshima e Nagasaki. Con la bomba atomica l’umanità ha sperimentato la potenza distruttiva della guerra moderna, il timore di una distruzione più ampia rispetto ai territori colpiti. Ricordiamo pressoché tutti gli effetti della nube tossica a distanza di chilometri e di anni. La paura della guerra e della distruzione su larga scala, non ha però impedito il nascere di guerre civili, guerre fredde e guerre più o meno distanti da noi. Per molti popoli la guerra non è mai finita ma ce ne siamo curati solo in alcuni casi e per ragioni specifiche. Improvvisamente, per l’Occidente in generale e per l’Italia in particolare, le cose sono cambiate. La guerra in Ucraina ci è apparsa diversa per molti motivi.

Vediamo alcuni aspetti. Gli abitanti dell’Ucraina sono simili a noi, molti di loro (si stima più di 240 mila) vivono in Italia e abbiamo affidato loro, alle donne ucraine, la gestione delle nostre case, l’accudimento dei nostri anziani. Non importa se per fare questo hanno dovuto abbandonare le loro famiglie e i loro figli. Un legame e un’identificazione tale che da tante parti ha addirittura fatto nascere l’idea che le persone provenienti dall’Ucraina siano “profughi veri” a differenza, evidentemente, di quelli “falsi”. Un legame che ha spinto molti italiani a offrire le loro case per ospitarli.

Un secondo aspetto è legato alle minacce indirette che percepiamo: la preoccupazione che tutto ciò possa determinare un peggioramento delle nostre condizioni di vita, già messe in discussione dalla Pandemia, che si traduce nell’aumento dei costi dell’energia, nel progressivo blocco di molte filiere produttive, nella possibilità di carenze alimentari. Se poi torna il fantasma nucleare le preoccupazioni aumentano. Lo vediamo nei nostri figli sempre più spaventati e alle prese con regressioni emotive e cognitive ogni giorno più evidenti.

Come affrontare tutto questo? Sappiamo che la forza della resilienza è sostanzialmente quella di metabolizzare le esperienze più drammatiche e di imparare dalle stesse. Il nostro cervello ha una strutturata capacità di apprendere dall’esperienza e in particolare dagli errori che si commettono. E allora viene da chiedersi: Come mai non abbiamo imparato niente dalla storia?

Sappiamo tutti che le guerre, non solo quella attuale, non sono una soluzione. Non si attenua una minaccia con un’altra minaccia. Non vogliamo essere buonisti, ma realisti. Le guerre nella storia non hanno portato che morte e distruzione eppure nel mondo, come ci ricorda Michele Serra ci sono ben quindicimila ordigni termonucleari (ne basterebbero 50 per distruggere l’umanità). Fa differenza se i bambini, gli uomini e le donne uccise sono ucraine, iraniane, afgane o yemenite? Forse dovremmo impegnarci tutti e tutte affinché si veicoli una cultura pacifica, rispettosa delle differenze e cooperativa, fin dall’infanzia. Possiamo insegnare ai bambini e alle bambine di oggi che saranno leader domani che esiste una logica win-win e non necessariamente win-lose. La sana competizione è produttiva e non va demonizzata, ma bisogna sempre inserirla in un contesto che favorisca il rispetto reciproco e non avalli la celebre massima latina “mors tua vita mea”. L’aggressività è una componete della psiche umana, esserne consapevoli aiuta a cercare e trovare le migliori strategie per indirizzare la sana aggressività verso la necessaria spinta alla ricerca, all’innovazione e al cambiamento di cui può essere un efficace propulsore.

Inoltre, possiamo tutti scegliere consapevolmente cosa acquistare e come, perché le piccole azioni di ognuno di noi si traducono in grandi azioni collettive. Sappiamo bene, infatti, che le guerre non sono estranee ad interessi economici e logiche di approvvigionamenti di risorse. Utopia? No, la psicologia possiede gli strumenti per aiutarci ad andare in questa direzione proprio nella misura in cui la conoscenza dei meccanismi mentali può e deve essere al servizio di questo progresso che può attuarsi solo promuovendo consapevolezza del proprio potere individuale e cultura del rispetto dell’altro.