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Quel soffitto di cristallo ancora infrangibile

Nuovo appuntamento con la rubrica Spazio Psicologico in collaborazione con l'associazione Psicologi Liberi Professionisti

Elisa Mulone
Psicologa e Psicoterapeuta Presidente Nazionale PLP

 

Da Libero professionista reloaded, numero 2

 

I cambiamenti culturali, sociali e le battaglie femministe non sono bastate a offrire pari opportunità a uomini e donne. Per ridurre il divario di genere serve coltivare una cultura nuova. Narrare una storia che includa finalmente anche le donne. Perché la questione femminile è “La Questione”

 

Mamma, ma esiste la festa degli uomini? Come sempre, sono i bambini che insegnano agli adulti. La domanda di un bambino di 9 anni nei giorni successivi all’8 marzo apre nuovi orizzonti di senso. Sarebbe bello se si istituisse una giornata di celebrazione dell’essere umano, al di sopra di ogni differenza di genere. Attualmente, esiste ancora, purtroppo, una differenza che si traduce in disparità, mentre potrebbe tradursi in ricchezza. Esiste un divario tra la condizione femminile e quella maschile. Sono passati troppi pochi anni, in effetti, dall’abolizione di leggi discriminatorie e lesive della dignità della donna e dall’approvazione di leggi volte a un maggiore riconoscimento sociale.

L’estensione del diritto di voto alle donne risale al 1945, ma fu necessario un nuovo intervento normativo nel 1946 per garantire alle donne anche il diritto ad essere elette. Soltanto nel 1981, grazie al coraggio di Franca Viola, è stato cancellato l’art.544 del codice penale che ammetteva il matrimonio riparatore tra stupratore e vittima di violenza sessuale con conseguente estinzione del reato, e alla cancellazione dell’art. 587 che giustificava il delitto d’onore. Era appena il 1994 quando lo stupro da reato contro la morale diventa reato contro la persona (in effetti non era scontato che le donne fossero considerate persone e non corpi-oggetti da possedere). E se pensiamo che, pochi mesi fa, è stato necessario approvare una legge che sancisca il diritto alla parità salariale tra uomini e donne, ci possiamo facilmente rendere conto di quanto i diritti non siano scontati e soprattutto paritari.

Nel libro di Rosalind Miles Chi ha cucinato l’ultima cena? Storia femminile del mondo, si legge: “I medici di sesso maschile si scervellavano sul perché le donne volessero diventare dottori invece che infermiere”…“Preferirei ovviamente mille sterline l’anno invece che venti” osservò Elisabeth Garrett Anderson, prima donna ad intraprendere la professione medica nell’Inghilterra dell’Ottocento.

Arrivando ai giorni nostri, i cambiamenti culturali e le battaglie femministe non sono bastate a offrire pari opportunità a uomini e donne. Le donne faticano ad arrivare a ruoli apicali e ad affermarsi nelle professioni tecnico-scientifiche storicamente di appannaggio maschile. È il cosiddetto glass ceiling, o soffitto di cristallo, quella barriera che si interpone tra la realizzazione personale e di carriera di una donna e le possibilità che il contesto offre in tale direzione. Una donna deve faticare di più rispetto a un uomo per raggiungere posizioni apicali, ma anche per mantenere una situazione lavorativa non necessariamente di prestigio. Stereotipi e pregiudizi continuano ad alzare paletti e ad ostacolare la possibilità delle donne di diventare ciò che desiderano veramente, scostandosi da quello che il modello culturale imperante pretende. Cosa comporta tutto questo? Dissonanze tra i propri desideri e le risorse a disposizione per realizzarli, il dover scegliere tra maternità e realizzazione professionale, una corsa sfrenata per mantenere in equilibrio il ménage familiare e gli impegni lavorativi.

Cosa potrebbe aiutare a ridurre il divario di genere? Prima di tutto lavorare per abbattere antichi stereotipi residuati da una società fondata sulla centralità del “maschio”. Sono cambiati i ruoli sociali, non c’è più la netta distinzione tra chi si occupa dell’oikos, la casa identificata con la sfera privata, e chi si occupa della polis, la città coincidente con la sfera pubblica. Nei luoghi comuni, negli schemi mentali di ognuno di noi si nascondono, ancora oggi, vecchie attribuzioni di ruolo profondamente radicate. Il risultato è la pretesa, quasi scontata, che la donna continui ad “assolvere” a determinati compiti atavicamente attribuiti, per i quali sarebbe “più predisposta”. Al di fuori della predisposizione al parto anatomicamente determinata dalla presenza di un organo atto ad accogliere e far crescere all’interno del proprio corpo un altro essere vivente, cosa peraltro non dovuta ma, possibilmente, frutto di una scelta consapevole, tutto quello che nella società rimanda a una predisposizione non è altro che il risultato di un orientamento precoce e sistematico che avviene, perfino, a partire dalla scuola. È dal luogo in cui si dovrebbe favorire la massima espressione delle proprie abilità che, ancora oggi, si veicolano stereotipi di genere e luoghi comuni, come le immagini sui libri di testo che ritraggono la mamma che passa l’aspirapolvere e il papà sul divano che legge il giornale. Virginia Wolf in un suo scritto confessa di aver dovuto uccidere l’Angelo del focolare” che ostacolava il suo lavoro, ma ha agito per legittima difesa!

Un altro modo per ridurre il divario di genere potrebbe essere quello di incrementare le politiche di conciliazione dei tempi di vita con i tempi del lavoro, ponendo come presupposto che i figli sono della coppia e non solo della madre. Anche questo diventa un problema se pensiamo a quante donne hanno perso o rinunciato al lavoro durante questa pandemia e a quante donne escono dal mondo del lavoro dopo la nascita dei figli, faticando a rientrarci a distanza di anni. Più che di tutela della maternità bisognerebbe occuparsi della tutela della genitorialità, per far sì che la scelta di avere dei figli non ricada solo sulle donne, ma possa essere realmente condivisa e non comporti rinunce solo alle madri lavoratrici.

La struttura societaria attuale è formata da reti a maglie molto larghe e non ci sono servizi adeguati a sostenere le persone mosse dal desiderio di avere dei figli. Nel mondo libero professionale questa mancanza ha un peso ancora maggiore.

Per ridurre un divario che si stima colmabile tra non meno di 135 anni (secondo il World Economic Forum), serve coltivare una cultura nuova. Narrare una storia nuova, che includa le donne. Nei libri di storia le donne mancano, come se non fossero esistite al di fuori dell’oikos e, difatti, per esistere serve una narrazione. Esistono scienziate, inventrici, politiche, professioniste in ogni campo, ma la storia non le nomina. Chi conosce Elena Lucrezia Cornaro, Maria Sibylla Merian, Laura Bassi, Caroline Herschel, Helen Taussig, Barbara McClintock, Maria Goeppert Mayer, Rachel Carson, Dorothy Hodgkin, Getrude Belle Elion, Rosalind Franklin, Rancoise Barre-Sinoussi, Maria Clotilde Bianchi, Lynn Margulis, Ada Lovelace, Lidia Poet, Alice Guy, Mabel Normand, Cleo Madison? Sono scienziate, studiose, professioniste che hanno contribuito a importanti scoperte, pioniere in vari campi senza però ricevere premi o riconoscimenti, a volte attribuiti ad altri, uomini ovviamente, e pertanto rimaste sconosciute ai molti per non essere entrate nella storia accessibile a tutti.

A livello pratico, non che alle donne piaccia, ma finché nuovi presupposti culturali non saranno consolidati, serviranno anche le quote rosa nei ruoli istituzionali e la nuova certificazione di genere per le imprese che attesti le misure adottate dal datore di lavoro per ridurre il divario di genere in termini retributivi, di opportunità di crescita e di tutela della maternità (o meglio della genitorialità!).

Mi piace concludere con le parole tratte da un monologo di Lella Costa: “È audace impresa spiegare che non esiste una sola questione femminile che non riguardi l’intera umanità, che la questione femminile è “La questione”, che sul possesso e il controllo delle donne si gioca il futuro di tutti”