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So dunque sono: antidoti alla paura di non sapere

Di Elisa Mulone, Psicologa e Psicoterapeuta past president PLP

Viviamo nella società del tutto è possibile, se lo vuoi; tutto è raggiungibile (anche lo spazio), se ti procuri i mezzi per farlo; tutto quello che c’è da sapere è a disposizione (basta googlare). Viviamo l’illusione che questo sia vero e, pertanto, se non riusciamo a ottenere ciò che desideriamo sentiamo il fallimento e se non sappiamo qualcosa sentiamo l’umiliazione dell’ignoranza. Siamo sommersi da una mole di dati e di informazioni per cui si parla di info demia; facciamo un uso spropositato e inappropriato delle parole. Affolliamo il mondo di parole perché “non si può non sapere” e bisogna “far sapere che sappiamo”. Come si chiede, e ci chiede, Vera Gheno nel suo libro Le ragioni del dubbio: “Quante sono le persone che intervengono nelle discussioni senza alcuna competenza specifica pensando di averla? Quanti criticano gli esperti con un «Io non credo che sia così» dall’alto di incrollabili certezze?”

Sono 3 le parole chiave che la linguista indaga invitando a usare responsabilmente e consapevolmente le parole:

  1. dubbio;
  2. riflessione;
  3. silenzio

In una società in cui il dubbio è visto con sospetto, siamo invitati a ridargli dignità. Il dubbio è fondamentale, ci serve per non cadere vittime di una arida autoreferenzialità, per stimolarci ad approfondire ambiti di conoscenza. “Acquisire un’informazione non vuol dire conoscere: non coincide nemmeno con il capirla”, si legge nel libro. Attenzione però, il senso non è quello di mettere in dubbio ogni cosa in maniera indiscriminata, altrimenti andiamo incontro alla sindrome dell’impostore che riguarda coloro i quali non si sentono mai abbastanza competenti.

Di contro non va alimentato nemmeno l’effetto Dunning-Kruger, la distorsione cognitiva che porta persone non molto competenti a sovrastimare le proprie conoscenze e a sentirsi esperti. In medio stat virtus.

Anche la riflessione è indispensabile per non alimentare il caos informativo. Tutto intorno a noi si muove velocemente e siamo sollecitati a fare altrettanto, ma è necessario rallentare. Se la comunicazione e la trasmissione dei messaggi è istantanea, non lo deve essere il processo di costruzione del messaggio stesso che deve, invece, essere frutto di una riflessione accurata. Solo così potremo essere più consapevoli di noi stessi e della fondatezza di ciò che comunichiamo e ce ne potremo assumere piena responsabilità.

Sul silenzio ci sarebbe tanto da dire. Erroneamente concepito come assenza di comunicazione, esso è al contrario fonte informativa. Il silenzio permette quella pausa, a cui non siamo molto abituati, ed eviterebbe di riempire di parole vuote l’imbarazzo che, spesso, il silenzio genera. Il silenzio ha innumerevoli volti. C’è il silenzio degli ultimi, di chi non ha parole o le cui parole non vengono ascoltate. C’è il silenzio dell’indifferenza. C’è il silenzio di chi sfugge dalla responsabilità di una scelta, di una decisione difficile o di un confronto. C’è il silenzio commemorativo. Quello che è certo è che del silenzio abbiamo bisogno perché è lo spazio del pensiero e ci salva dal rumore quotidiano di questa società frenetica. Il silenzio, terza e ultima parola chiave di questo contributo, dopo aver messo in dubbio e aver riflettuto, può, quindi, essere l’atto linguistico più opportuno quando ci si è resi conto di non aver nulla da dire.

Per concludere questa riflessione, non posso non citare il paradosso socratico “So di non sapere” che sarebbe utile riportare in auge. Fondato sulla sana e tollerabile ignoranza, non vissuta come debolezza ma, altresì, come consapevolezza di una conoscenza parziale, non totale, esso alimenta nella persona la curiosità e il desiderio di accrescere la propria conoscenza e di potersi confrontare con umiltà.