Viviamo la nostra vita con un confine sempre più sfumato tra reale e virtuale. Onlife è quanto accade e si fa mentre la vita scorre, restando collegati a dispositivi interattivi. È un neologismo, creato dal filosofo italiano Luciano Floridi, professore di Filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford. Come sostantivo il termine indica “La dimensione vitale, relazionale, sociale e comunicativa, lavorativa ed economica, vista come frutto di una continua interazione tra la realtà materiale e analogica e la realtà virtuale e interattiva”; come aggettivo connota “un’esperienza, attività e simili avuta o fatta tramite una costante connessione online” (Fonte Treccani).
Stare connessi mentre si fa altro è ormai una costante nella vita di ognuno di noi. Stare fisicamente accanto a qualcuno, ma interagire virtualmente con qualcun altro è la prassi. Un gioco di vicinanza e distanza in cui i parametri fisici assumono connotazioni nuove.
Come scrive lo Psicoterapeuta Giovanni Salonia su un articolo apparso sul giornale “La Sicilia”: “Stiamo pian piano dematerializzando ogni aspetto della nostra quotidianità. Visitiamo negozi virtuali…riceviamo informazioni continue e partecipiamo di un sapere dematerializzato universale… c’è una funzione regolativa della comunicazione ‘strumentale’, mediatica, che ci consente di vivere e di orientarci in un contesto eccessivamente sollecitante, colmo di opportunità”.
Scrive Umberto Macchi sul suo blog per la rivista Rewriters “Il neologismo onlife rappresenta la natura ibrida delle nostre esperienze quotidiane e l’infinita connessione con i sistemi di informazione digitale che caratterizza le nostre vite. La dimensione vitale, sociale e comunicativa, lavorativa ed economica si è trasformata radicalmente, in una continua interazione tra la realtà materiale e concreta e la realtà virtuale e interattiva”. Viviamo nell’infosfera, un ambiente nel quale reale e virtuale sono profondamente intrecciati.
Senza demonizzare i progressi inevitabili verso cui la nostra società si orienta, cogliamo il rischio di un uso improprio e spropositato di quello che può essere una facilitazione. Il rischio è che diventi l’unica alternativa, o con le parole di Salonia quello di “Scambiare il vuoto per pieno. Le strade sono vuote di bambini, mentre le camerette sono piene. Piene di cuccioli d’uomo curvi sui loro cellulari o impegnati a giocare a distanza coi loro coetanei grazie ai videogames: l’amico con cui giocare, parlare, con il quale iniziare una partita si trova oggi dall’altra parte del mondo”.
Un giorno chiedo a mio figlio di 9 anni, intento a giocare col suo videogioco preferito, con chi sta giocando e lui mi risponde: “Con un mio amico, Leon13”. Allora capisco che se mio figlio definisce “amico” un insieme di lettere che interagisce con lui all’interno di uno scenario virtuale attraverso uno schermo, c’è bisogno di fare chiarezza e di dare il giusto peso e il giusto nome alle cose. Perché di amici reali, per fortuna, ne ha tanti e può, quindi, collocare la sua esperienza nella giusta cornice.
“Il mondo delle cyber-relazioni è un’occasione d’oro per comunicare con l’altro” scrive Salonia, ma in base allo strumento che sceglieremo di utilizzare per comunicare, sceglieremo anche quanto corpo dare al messaggio che intendiamo veicolare. In fondo, sappiamo che scrivere un messaggio è più rassicurante che dire le stesse cose guardando la persona negli occhi con il coinvolgimento di tutti i nostri sensi. C’è, al momento, in futuro chissà, un’intercorporeità limitata, che ci protegge, ma che può risultare riduttiva.