L’Iva insegue anche il professionista defunto

Di Lelio Cacciapaglia e Maurizio Tozzi People Lending Money   Premessa Le Sezioni Unite della Cassazione hanno dato ragione all’agenzia delle entrate che, nell’ambito di un contenzioso con un architetto, ha sostenuto che l’incasso da parte del professionista del compenso professionale dopo la chiusura della partita Iva a seguito di cessazione dell’attività, doveva comunque essere

Di Lelio Cacciapaglia e Maurizio Tozzi

 

Premessa

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno dato ragione all’agenzia delle entrate che, nell’ambito di un contenzioso con un architetto, ha sostenuto che l’incasso da parte del professionista del compenso professionale dopo la chiusura della partita Iva a seguito di cessazione dell’attività, doveva comunque essere assoggettato ad Iva. Nel motivare le proprie conclusioni, la sentenza n. 8059 del 21 aprile 2016, dando atto dei contrasti interpretativi e del tormentato iter processuale della lite nella fase di legittimità, si rifà ai principi UE in materia di debenza di Iva, affermando, in estrema sintesi, che dal momento che il professionista in costanza di partita Iva ha detratto l’iva sugli acquisti risponde a principi di coerenza che questi debba versare l’Iva su tutte le prestazioni svolte.

 

La posizione dell’Agenzia

Sul punto, la posizione dell’agenzia delle entrate d’altronde è ben nota e datata, espressa con risoluzione n. 232 del 20 agosto 2009. Trattasi di una risposta ad un quesito di un commercialista il quale avendo emesso a carico di una ASL una fattura con Iva differita per una prestazione professionale, chiedeva come doveva comportarsi non avendo ancora incassato la predetta fattura, posto che in considerazione dell’età avanzata e della oramai marginale attività svolta, intendeva chiudere la partita Iva e cancellarsi dall’albo professionale. Il professionista, dal momento che l’incasso della parcella, in considerazione della natura del committente (pubblico) avrebbe potuto anche avvenire dopo diversi anni, riteneva di poter emettere una nota di credito di sola Iva e chiudere poi la partita Iva.

Di diversa opinione l’Agenzia delle entrate la quale, in risposta al quesito, ha fatto presente che la problematica, di fatto, era stata già affrontata con la Circolare n. 11/E del 16 febbraio 2007 – n. 7.1, in relazione alla rilevanza fiscale (IVA e IRPEF) della cessione del pacchetto clienti di un professionista in cui il pagamento avveniva in forma rateale. In tale sede, ricorda l’Agenzia, è stato precisato che l’attività del professionista non si può considerare cessata fino all’esaurimento di tutte le operazioni, ulteriori rispetto all’interruzione delle prestazioni professionali, dirette alla definizione dei rapporti giuridici pendenti e, in particolare, di quelli aventi ad oggetto crediti strettamente connessi alla fase di svolgimento dell’attività professionale.

In definitiva, secondo l’agenzia, la cessazione dell’attività per il professionista non coincide con il momento in cui egli si astiene dal porre in essere le prestazioni professionali, bensì con quello, successivo, in cui chiude i rapporti professionali, fatturando tutte le prestazioni svolte e dismettendo i beni strumentali.

Dunque, fino al momento in cui il professionista, che non intenda anticipare la fatturazione rispetto al momento di incasso del corrispettivo, non realizza la riscossione dei crediti, la cui esazione sia ritenuta ragionevolmente possibile (perché, ad esempio, non è decorso il termine di prescrizione di cui all’art. 2956, comma 1, n. 2 del codice civile) l’attività professionale non può ritenersi cessata.

La Risoluzione n. 232/2009 conclude invitando il professionista ad attenersi ad una delle seguenti 2 soluzioni:

  • attendere nella chiusura della partita Iva sino al momento dell’incasso della fattura, in modo da versare la relativa Iva;

  • anticipare il versamento dell’iva sulla parcella, abbandonando di fatto il criterio della sospensione.

Sin qui il pensiero dell’amministrazione finanziaria.

 

Le conclusioni della Cassazione a Sezioni Unite

Vediamo ora le conclusioni, non dissimili, della suprema Corte di cassazione a SSUU, la quale nella propria sentenza n. 8059 del 21 aprile scorso, ha ripercorso l’iter processuale così come le è stato sotto posto con ordinanza n. 24432/2014 dalla Corte di Cassazione, Sezione VI Civile.

Sia la Commissione tributaria provinciale, sia quella regionale confermavano le ragioni del professionista, annullando l’atto impositivo. L’agenzia delle Entrate ha ricorso per cassazione, lamentando che il giudice di appello non aveva considerato che la cessazione dell’attività professionale non escludeva la regolare fatturazione delle somme percepite, imponibili all’atto della loro maturazione, e comunque inerenti all’attività esercitata in passato. La Corte di Cassazione, Sezione VI remittente, nel sottoporre la questione alla SSUU evidenziava come l’articolo 6 del decreto Iva prevede che nelle prestazioni di servizi (comprese quelle professionali) l’Iva è dovuta (solo) al momento dell’incasso. Tale principio, peraltro è stato già in passato ribadito dalla Cassazione (n. 13209/09; 3976/2009). Da qui l’oggettiva incertezza.

Ebbene, le Sezioni unite, in primo luogo hanno rilevato che una simile interpretazione della norma nazionale risulterebbe in contrasto con le direttive comunitarie. Infatti, sia la VI direttiva Iva (77/388/Cee) sia quella l’attuale (2006/112/Ce) distinguono in relazione all’Iva tre diversi momenti:

  1. il fatto generatore, vale a dire l’evento che fa scaturire l’obbligazione tributaria e l’imponibilità;

  2. l’esigibilità, ossia la possibilità per l’erario di pretendere l’Iva incassata dal contribuente;

  3. il pagamento del tributo all’erario.

Peraltro, circa l’evento che genera l’obbligo, entrambe le direttive prevedono che questo si ha nel momento di effettuazione della prestazione del servizio, talché le direttive UE vincolano l’imponibilità Iva non al pagamento del corrispettivo, ma al materiale espletamento della prestazione. Tale principio è stato anche ribadito dalla Corte di giustizia 26 ottobre 1995, causa C – 144/94. Ne consegue che, prosegue la Suprema Corte, la normativa Iva italiana deve necessariamente essere interpretata nel senso che per le prestazioni di servizio, il presupposto impositivo – e con esso l’insorgenza dell’imponibilità ai fini Iva – si verifica con l’esecuzione della prestazione. Dunque, l’incasso del corrispettivo rappresenta (solo) il limite ultimo oltre il quale non si può andare per la fatturazione del compenso.

Ne consegue che l’incasso conseguito dopo la cessazione dell’attività professionale va assoggettato ad Iva, poiché riferito ad una prestazione eseguita durante l’esercizio dell’attività professionale. D’altronde, il professionista, durante la propria attività soggetta ad Iva ha detratto l’imposta sugli acquisti e, pertanto, risulta del tutto corretto applicare l’Iva sulla prestazione eseguita, anche se incassata oltre la data di cessazione dell’attività.

Se tutto ciò sembra convincente resta il fatto di come debba essere risolto il problema di quel professionista che emette fattura al momento della cessazione dell’attività, versando la relativa Iva e poi non riesce ad incassare il corrispettivo. In linea di principio avrebbe diritto ad emettere una nota di credito. Ma a chiusura partita Iva avvenuta ciò appare arduo.

 

Il professionista deceduto e l’incasso da parte degli eredi

La Corte si sofferma anche sulle problematiche dei compensi del professionista deceduto incassati dagli eredi, richiamando l’articolo 35, comma 1 del DPR n. 633/1972, il quale nella sostanza accolla agli eredi gli obblighi in tema di fatturazione del de cuius. Per quanto la sentenza si fermi qui, occorre concludere che gli eredi non possono chiudere la partita Iva del professionista defunto sino a quando non interviene l’incasso dell’ultima parcella, ovvero in alternativa devono provvedere a fatturare i compensi non incassati e versare l’Iva e solo dopo chiudere la partita Iva.

Circa le imposte sui redditi, posto che come noto, il professionista è tassato per cassa, si pone il problema della natura del reddito percepito post chiusura della partita Iva. Sul punto occorre richiamare la Sentenza della Cassazione n. 4785/2009 la quale afferma in modo perentorio che l’incasso della parcella avvenuto dopo la chiusura della partita Iva configura comunque reddito professionale (e non reddito diverso) e ciò anche nell’ipotesi in cui la parcella è riscossa dagli eredi. Ne consegue che il cliente che paga gli eredi deve comunque effettuare, se sostituto d’imposta, la relativa ritenuta d’acconto (cfr. Risoluzione n. III – 5 – 1001/93 del 3/1/1994). Il reddito di cui trattasi è dunque tassato in capo all’erede ma, ai sensi dell’articolo 7, comma 3 del Tuir è tassato separatamente mediante indicazione nel quadro RM della propria dichiarazione dei redditi.

Da ultimo, la circostanza che il credito vantato dal de cuius nei confronti del cliente vada indicato nella dichiarazione di successione da parte dell’erede non comporta certo l’esenzione dalla tassazione Irpef.

Varrebbe la pena non morire solo per non dare tutti questi grattacapi ai poveri eredi