Professionisti ed acquisto di immobili strumentali, tra soluzioni “ammesse” ed ipotesi abusive

Il Pronto Fisco di novembre, a cura di Lelio Cacciapaglia e Maurizio Tozzi

L’immobile strumentale del professionista e l’assetto fiscale tra acquisto e leasing

È noto che la tematica “immobile destinato all’attività professionale” rappresenta, sul fronte fiscale, un tema spinoso e assai controverso, soprattutto in ordine alla casistica “acquisto”. Volendo essere estremamente sintetici, senza dilungarsi in disquisizioni tecniche, l’attuale anomala situazione normativa è la seguente:

  • per i beni immobili strumentali all’attività posseduti a titolo di proprietà o altro diritto reale (come ad esempio l’usufrutto) purché acquistati o costruiti fino al 14/6/1990 (articolo 1, comma 1 lett. g) del D.L. n. 90/90, convertito dalla Legge n. 165/90), o ancora per i beni acquisiti dal 1/1/2007 al 31/12/2009 (articolo 1, comma 335 della Legge n. 296/2006), sono ammesse in deduzione, in ciascun periodo d’imposta, quote di ammortamento determinate entro un ammontare massimo pari a quello conseguente all’applicazione delle aliquote previste dal D.M. 31.12.88. L’ovvia implicazione di tali riferimenti temporali è che per gli immobili acquistati o costruiti dal 15/6/1990 al 31/12/2006, nonché per quelli acquistati a partire dal 1/1/2010 (Circolare n. 38/E/2010 Agenzia delle Entrate), la deduzione delle quote di ammortamento non è invece consentita. Di fatto, ad oggi il professionista non può procedere all’acquisto di un immobile professionale confidando nella relativa deduzione del costo d’acquisto;
  • sul fronte leasing, invece, per i contratti stipulati a partire dal 1/1/2014, i canoni sono deducibili a condizione che il contratto abbia una durata non inferiore ai 12 anni (articolo 54, comma 2 del DPR n. 917/86). Da ricordare che la deducibilità è stata ammessa anche per i contratti stipulati nel 1/1/2007 – 31/12/2009, a condizione in tal caso che la durata del contratto sia non inferiore alla metà del periodo di ammortamento stabilito dai relativi coefficienti ministeriali e comunque con un minimo di 8 anni e un massimo di 15 anni.

Tale stato dell’arte porta, sovente, il professionista ad interrogarsi sulle soluzioni applicabili, con conseguente “rischio” di realizzare costruzioni artificiose che possono essere accusate di “abusivismo” rispetto alla normativa fiscale, fattispecie che si è di recente concretizzata in una casistica sottoposta all’attenzione dell’amministrazione finanziaria, che con la risposta ad interpello n. 742 del 2021 ha appunto “bocciato” la soluzione proposta dal soggetto istante.

Il caso permette di soffermarsi sullo spartiacque tra “soluzioni legittime” e “soluzioni abusive”, analizzando anche il trend della giurisprudenza di merito e cercando di individuare le situazioni che possono ormai ritenersi “conclamate” quali operazioni tese al legittimo risparmio d’imposta.

 

Cenni all’abuso del diritto

L’ovvio elemento di fondo da tener presente è il “perimetro” dell’abuso del diritto, delineato dall’articolo 10-bis della Legge 212/2000 (“Statuto del Contribuente”). Tale disposizione, in estrema sintesi, configura quale “abuso del diritto” una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti.

Gli assunti fondamentali sono:

  • l’assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate (per operazioni prive di sostanza economica si intendono i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali);
  • il conseguimento di un vantaggio fiscale indebito come fine essenziale dell’operazione.

Il legislatore fa salva “in ogni caso” la possibilità di escludere l’applicazione della disciplina antiabuso qualora venga fornita la dimostrazione da parte del contribuente che le operazioni sono giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente.

È bene, comunque, precisare il rapporto tra il concetto di “sostanza economica” e quello di “valide ragioni  extrafiscali”: volendo esemplificare, solo in assenza della “sostanza economica” è possibile, almeno teoricamente, supporre la fattispecie abusiva, che in ogni caso viene meno se sussistono le valide ragioni extrafiscali.

 

Interpello 742 del 2021 – il caso concreto

Nella casistica analizzata nella risposta ad interpello 742 del 2021 è abbastanza evidente la “necessità” di trovare una soluzione fiscalmente “comoda” per il professionista istante. Nel dettaglio, il contribuente rappresentava di aver personalmente acquistato un immobile in leasing utilizzano per la sua attività professionale con partita Iva, successivamente ceduto in locazione alla associazione tra professionisti di cui lo stesso faceva parte. Successivamente era emersa la volontà di porre in essere le seguenti operazioni:

  • cessione del contratto di leasing immobiliare alla Newco SRL immobiliare interamente partecipata dal professionista a fronte di un corrispettivo inferiore al valore normale dell’immobile;
  • accensione di un prestito infruttifero da parte del medesimo professionista – unico socio della Newco – col fine di reperire le risorse necessarie affinché la società possa corrispondere il prezzo pattuito per la cessione del contratto di leasing;
  • risoluzione del contratto di locazione tra il professionista istante e la Newco SRL immobiliare di cui lo stesso detiene una quota partecipativa;
  • stipulazione di un nuovo contratto di locazione dell’immobile tra la Newco srl immobiliare e la medesima associazione professionale, ad un valore di mercato slegato dall’importo del canone di leasing.

L’Agenzia delle entrate, nell’esaminare la fattispecie, chiarisce che l’operazione di cessione del contratto di leasing ad una Newco interamente partecipata dal cedente ad un prezzo di gran lunga inferiore al valore di mercato è una operazione abusiva, poiché si sostanzia in una condotta volta ad evitare la completa “emersione” di una plusvalenza fiscalmente imponibile derivante da un conferimento diretto del contratto di leasing nella società neo costituita e controllata al 100% dal socio unico che sarebbe stato tassato in base al valore normale.

L’Agenzia delle Entrate giunge a tale conclusione evidenziando che nelle operazioni proposte non c’è altro vantaggio se non quello rappresentato dal risparmio fiscale in capo al socio unico che realizza una operazione sostanzialmente riconducibile ad un conferimento.

Infatti, mediante il conferimento il soggetto conferente apporta beni ad una società conferitaria, ricevendo in cambio quale corrispettivo, in luogo del denaro, le quote  della società stessa. Attraverso il conferimento del bene, la società conferitaria aumenta il proprio capitale sociale emettendo nuove quote da assegnare al soggetto conferente. Tuttavia, l’articolo 9, comma 5 del Tuir equipara i conferimenti alle cessioni a titolo oneroso, con la conseguenza che al pari di tali ultime operazioni, i conferimenti generano delle plusvalenze fiscalmente tassabili nella misura in cui il valore della partecipazione ottenuta risulti superiore rispetto al valore fiscalmente riconosciuto della partecipazione conferita.

L’Agenzia delle entrate, pertanto, ripercorse le conseguenze dell’alternativa alla cessione del contratto proposta dal professionista istante, ed evidenzia come la scelta che il contribuente intende eseguire è volta all’esclusivo fine di ottenere un indebito vantaggio fiscale costituito dalla non tassazione della differenza tra il valore normale del contratto di leasing ed il corrispettivo indicato. In particolare, l’Agenzia ha evidenziato che: «la duplice posizione rivestita dall’Istante quale cedente (in proprio) del contratto di leasing e cessionario del medesimo contratto (attraverso il controllo della società̀ unipersonale costituita), la predeterminazione del corrispettivo ad un valore inferiore al valore normale ed infine l’accensione di un finanziamento infruttifero volto a precostituire in capo alla società le risorse finanziarie per il pagamento del corrispettivo, rappresentano operazioni, unitariamente considerate, finalizzate a ridurre la plusvalenza derivante dal conferimento diretto del medesimo contratto».

L’indebito vantaggio fiscale risulta, a parere dell’Agenzia, altresì essenziale in quanto nella sequenza delle operazioni rappresentate non si ravvede altro vantaggio o interesse economico ovvero gestionale diverso da quello volto a realizzare un obiettivo personalistico consistente nell’abbattimento del carico tributario.

In definitiva, secondo l’Agenzia, la cessione del contratto e la successiva accensione di un finanziamento da parte dell’unico socio della società cessionaria (e a sua volta esso stesso cedente), sono operazioni prive di alcuna ragione economica, posto che di fatto l’obiettivo sarebbe raggiungibile con una più lineare operazione di conferimento che tuttavia, rispetto all’operazione prospettata, come detto, farebbe emergere una plusvalenza fiscalmente rilevabile. In poche parole, la complessa sequenza di operazioni che il professionista avrebbe voluto utilizzare ha un solo obiettivo: risparmiare imposte.

 

Le scelte legittime (almeno si spera)

Il tema analizzato nel richiamato interpello rappresenta, in linea generale, un argomento caldo per il mondo professionale. Di sicuro la fattispecie posta all’attenzione dell’amministrazione finanziaria era alquanto particolare, ma ciò non toglie che in genere lo scontro circa l’elusività o meno delle operazioni volte ad attribuire a società immobiliari gli immobili adibiti all’attività del professionista, a sua volta detentore di azioni della stessa società, ha caratterizzato in lungo e largo la giurisprudenza, soprattutto di merito, che sembra ormai aver sdoganato tale fattispecie, con ciò consentendo in capo alla società la deduzione dell’ammortamento.

Se ciò è vero, è altrettanto vero che la posizione dell’Amministrazione Finanziaria sembra ancora volta alla “resistenza”. In tali ipotesi, infatti, secondo l’agenzia delle entrate l’indebito vantaggio fiscale sarebbe rappresentato dal differenziale positivo che si sarebbe registrato qualora l’immobile fosse stato acquistato direttamente dal professionista, posto che, in tal caso, quest’ultimo non si sarebbe potuto portate in deduzione le quote di ammortamento ai fini della determinazione del reddito da lavoro autonomo posto che la norma non lo consente (vedi parte introduttiva del presente contributo). Diversamente, mediante l’acquisizione dell’immobile da parte di una società immobiliare e la successiva locazione a favore del professionista, quest’ultimo dedurrà i canoni di locazione, mentre la società dedurrà le quote di ammortamento facendo concorrere alla formazione del reddito i canoni di locazione corrisposti dal professionista.

 

Le valide ragioni del professionista

Nell’attesa di comprendere se, in futuro, il trend giurisprudenziale potrà subire un arresto e un totale cambio di rotta, che invece al momento sembra consolidato, deve dirsi ad onor del vero che in senso favorevole al professionista sembra deporre la portata e l’interpretazione dell’articolo 10-bis dello Statuto del Contribuente in precedenza citato, che non considera tout court illecito qualsiasi risparmio di imposta conseguito dal contribuente.

Nel caso di specie, infatti, la costituzione della società immobiliare da parte degli stessi soggetti che poi utilizzano e sfruttano gli immobili acquisiti dalla stessa rappresenta una valida ragione economica. Appare, infatti, assolutamente pacifico come il contribuente sia libero di deputare l’oggetto di talune società alla mera valorizzazione degli investimenti immobiliari al fine anche di attribuirne una funzione di protezione patrimoniale.

Per di più, è lo stesso legislatore che autorizza il contribuente a scegliere tra due alternative, entrambi compatibili con la ratio della normativa stessa, quella che comporti il minor carico fiscale (art. 10-bis, comma 4 L.212/2000).

 

La sentenza della CTR Piemonte

Ed invero questi aspetti sono già stati debitamente avallati, come detto, dalla giurisprudenza di merito che afferma la piena legittimità della scelta del contribuente di dotarsi di un assetto proprietario condiviso in forma societaria secondo uno schema del tutto lineare e razionale. Sull’argomento, è degna di menzione la sentenza n.185/5/2019 della CTR Piemonte che non considera abuso del diritto la deduzione da parte di un notaio dei canoni di locazione corrisposti relativamente all’immobile adibito all’attività professionale e di proprietà di una società di cui risulta socia al 99% la moglie dello stesso notaio. In particolare, i giudici di merito ritengono ricorrenti «valide ragioni economiche volte a esigenze di miglioramento strutturale e funzionale dell’attività professionale, quale indubbiamente è l’avvio di uno studio notarile, in cui la scelta se operare direttamente l’acquisto dello studio o ricorrere a una locazione di lungo periodo ha tenuto conto di molti fattori tra cui anche quello del risparmio fiscale, che però non rappresenta l’unico elemento di convenienza. […] ritenere che vi sia stata elusione per il solo fatto che vi fosse un rapporto di natura familiare è affidarsi a mere congetture o postulare che a fronte di due scelte entrambe con un contenuto economico apprezzabile il contribuente sia tenuto a privilegiare quella con il sistema fiscale più oneroso il che verrebbe a contrastare con il principio economico e anche giuridico dell’economicità delle scelte imprenditoriali che necessariamente includono anche, e non solo, il trattamento fiscale che nel caso di specie era recentemente passato da un regime di deducibilità delle quote di ammortamento a quello di indeducibilità» .

Le affermazioni della CTR sono dunque estremamente utili ad evidenziare come ormai sia pacifico che il risparmio fiscale non sia di per sé illegittimo o indebito, potendo il contribuente posto dinanzi alle possibili scelte offerte dall’ordinamento, scegliere anche la via fiscalmente meno onerosa.

L’ultimo inciso: non esagerare

La richiamata sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Piemonte non deve però essere interpretata nell’assunto che tutto sia consentito, dovendo comunque assumere un atteggiamento di puro buon senso in tutte le scelte. Significativa al riguardo è la decisione della Corte di Cassazione, sentenza n. 22579 dell’11 dicembre 2012, che ha riconosciuto come antieconomico il comportamento del professionista/avvocato che ha dedotto costi di locazione in anticipo rispetto alle ordinarie scadenze e comunque sproporzionati (inoltre, l’immobile condotto in locazione era di proprietà di una s.r.l., della quale l’avvocato era socio per metà con la moglie, e pertanto non era nemmeno ipotizzabile, a giustificazione del contegno del contribuente, il timore di perdere la disponibilità dell’immobile).

Per la Corte, “il professionista non può, a suo piacimento, imputare a titolo di costi dell’attività professionale oneri che appaiono incoerenti rispetto allo strumento negoziale utilizzato per avere a disposizione un bene strumentale all’esercizio professionale ed ipotetici rispetto all’esercizio dell’attività che andrà a svolgersi, in futuro. Ammettendo il contrario si finirebbe col legittimare il professionista a condizionare a suo piacimento i risultati delle dichiarazioni dei redditi in relazione a scelte individuali che, pur in astratto ammissibili, devono comunque sottostare alle regole di inerenza anche temporale che l’Ufficio ha il compito di verificare”.

In parole povere, va bene tutto, ma non l’uso (o abuso) a proprio piacimento!!