Professionisti, occhio agli accordi (e caccia all’incasso)

Il Pronto Fisco di gennaio, a cura di Lelio Cacciapaglia e Maurizio Tozzi

di Lelio Cacciapaglia e Maurizio Tozzi

 

Uno degli argomenti più “dolorosi” nello svolgimento dell’attività professionale attiene alla “giusta remunerazione”. L’applicazione dei tariffari è sempre più piena utopia, dovendo anche fare mea culpa e riconoscere una responsabilità parziale diretta dello stesso comparto professionale, che spesso attua una concorrenza al ribasso priva di senso, abituando peraltro la clientela a sottovalutare l’importanza dell’idonea consulenza.

Invero, nella determinazione del compenso dovrebbero anzitutto essere “neutralizzati” fattori ben precisi quali amicizie, parentele, etc, spesso forieri solo di guai inversamente proporzionali all’ammontare (peraltro spesso non) percepito. Dopo di che è indispensabile procedere alla giusta valorizzazione delle molteplici problematiche che potranno riguardare la prestazione da svolgere, essendo sufficiente considerare il tempo e il lavoro dedicato alla valutazione preliminare della fattispecie per poi soppesare i vari dettagli che riguardano la prestazione medesima. A titolo di esempio e rimanendo in ambito tributario. prendendo in considerazione l’ipotesi del contenzioso, nel valorizzare l’attività da svolgere non deve guardarsi solo alla redazione del ricorso, ma anche ai diversi appuntamenti da presidiare con l’ente accertatore per le fasi di adesione/mediazione/conciliazione, le presenze in commissione tributaria per le sospensioni e le udienze, le memorie eventuali da produrre, la gestione della fase della riscossione etc.

Il tutto, mettendo sul piatto della bilancia anche il parametro “rischio”, ormai sempre più esteso al professionista sia in termini di errato svolgimento dell’incarico, sia (fenomeno più doloroso), in qualità di potenziale corresponsabile nelle eventuali scelte “folli” del cliente, al quale è sempre bene rimarcare quali sono le soluzioni legittime e sconsigliare vivamente quelle illegittime, ribadendo che non solo si prendono le distanze, ma nemmeno si avalleranno quelle patetiche e ben visibili, non potendo incappare nella casistica secondo cui “il professionista non può non sapere”, conclusione spesso sottolineata dalla Corte di Cassazione per motivare il coinvolgimento di colui il quale, in forza delle sue conoscenze deontologiche, ha suggerito e aiutato a realizzare l’ipotesi fraudolenta del cliente (è il caso, ad esempio, del falso in bilancio relativamente alle rimanenze “inventate di sana pianta”, con magari un costo del venduto negativo, ossia rimanenze iniziali di 100, acquisti di 50 e irreale risultato finale di rimanenze pari a 250: è evidente che il commercialista “non può non sapere” che le rimanenze sono state gonfiate ad arte.

A fronte di tutto ciò, il suggerimento iniziale è di valorizzare idoneamente la propria prestazione professionale, rappresentando al cliente anche un ultimo assunto: ma se il corrispettivo è irrisorio, la prestazione sottostante potrà mai essere valida?

Dopo di che, in rapida successione occorre preparare la lettera d’incarico e stabilire le modalità di pagamento con tanto di adeguato acconto e tempistica di fatturazione, altrimenti s’incappa nell’ultima problematica di recente sottolineata dalla Corte di Cassazione, che potrebbe assumere i connotati del “paradosso” (ossia al danno si aggiunge la beffa): nell’ordinanza n. 24255 del 9 settembre 2021 è stato, infatti, precisato che è legittima da parte del fisco la presunzione secondo cui, una volta terminato l’incarico professionale, il professionista (nel caso specifico un avvocato) incassi gli onorari pattuiti, ove non riesca a dimostrare il contrario. Ed a tale riguardo rileva l’ultimo salvifico suggerimento: nessuna pietà verso i morosi, dovendosi comunque dimostrare di aver tentato ogni soluzione per recuperare il dovuto.

 

La vicenda analizzata dalla Suprema Corte e le sue conclusioni

La casistica attiene ad un avviso di accertamento emesso nei confronti di uno studio legale, costituito sotto forma di associazione professionale, al quale erano contestati la realizzazione di un maggiore volume d’affari e, conseguentemente, di redditi da lavoro autonomo non dichiarati.

Le Commissioni di merito, sia in primo che secondo grado, avevano annullato l’avviso di accertamento, ritenendo fondate le motivazioni di parte, conclusioni a cui si è opposta l’Agenzia delle entrate che in sede di Ricorso per Cassazione ha evidenziato tra l’altro come “l’accertamento si basava su acquisizioni di sentenze presso vari uffici giudiziari, da cui emergeva che lo studio professionale aveva patrocinato varie difese, il che alla luce del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d, consentiva la rettifica analitica induttiva. Peraltro, l’amministrazione finanziaria aggiunge nelle sue obiezioni anche che i risultati dell’accertamento erano stati oggetto di contraddittorio preventivo senza che gli associati fossero stati in grado di giustificare la mancata corresponsione dei compensi.

I Supremi Giudici hanno condiviso le doglianze dell’Agenzia delle Entrate, sottolineando a anzitutto due aspetti di sicura rilevanza:

  • In primo luogo, “il fatto che non risultasse dalla contabilità il versamento di alcun compenso è irrilevante nel presente giudizio visto che tale tipo di accertamento in rettifica della dichiarazione prescinde dalla contabilità, anche se formalmente regolare, basandosi invece su presunzioni assistite dai requisiti previsti dall’art. 2729 c.c.”. Trattasi dunque di presunzioni “gravi, precise e concordanti”, nel dimostrare l’avvenuto realizzo di compensi occultati;
  • In secondo luogo, rileva il pregresso orientamento giurisprudenziale (Cass. civ., Sez. V, 11 agosto 2016, n. 16969), secondo cui “In tema d’imposte sui redditi, il corrispettivo della prestazione del professionista legale e la relativa spesa si considerano rispettivamente conseguiti e sostenuti quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell’esaurimento o della cessazione dell’incarico professionale“. Dal che deriva che “il corrispettivo della prestazione del professionista legale si debba presumere conseguito quando la prestazione è condotta a termine per effetto dell’esaurimento o della cessazione dell’incarico professionale. Nel caso la prestazione professionale risulta proprio dalle sentenze acquisite”.

Da quanto sopra, l’utilizzo della presunzione per individuare il momento della effettiva percezione del reddito “è legittimo, in quanto conforme al criterio generale posto dall’art. 2727 c.c.”.

Nello specifico: “In altri termini, in virtù della prova indiziaria suddetta era onere del contribuente dare la prova dell’insussistenza di tali ricavi, senza che ciò comportasse l’onere di fornire una prova negativa, giacchè può parlarsi di prova negativa solo quando taluno per far valere un diritto fosse tenuto a dimostrare non solo i fatti costitutivi ma altresì la inesistenza di fatti estintivi. Non è certo questa la situazione del caso di specie. Qui l’Amministrazione ha fondato la pretesa fiscale su di una prova per presunzione ed il contribuente, per resistere, avrebbe dovuto contrastare tale prova e quindi, a questo fine, aveva l’onere di dimostrare di non aver percepito alcun reddito, per esempio producendo diffida ad adempiere o richieste di decreto ingiuntivo, o provare l’infruttuosità della esecuzione. In particolare, era onere del contribuente dimostrare la esistenza di fattori che avevano impedito o che comunque erano stati idonei ad impedire l’incasso dei compensi. Nè vale obiettare che non risulta emessa la fattura, in quanto nel caso l’ufficio assume che il compenso vi sia stato e quindi appare ragionevole ritenere che tale fattura non sia stata emessa al fine proprio di sottrarsi al pagamento delle imposte”.

In conclusione, la Suprema Corte non ha ritenuto condivisibile la decisione della Commissione Tributaria Regionale, dando ragione all’amministrazione finanziaria e sottolineando che la stessa CTR aveva errato nel non precisare “perchè non dovesse considerarsi idonea presunzione il fatto del pagamento del compenso per attività professionale portata a termine, ed avendo ritenuto necessari ulteriori riscontri probatori mediante accertamenti bancari”.

Gli spunti in ottica di “prevenzione”

Oltre a fornire il fondamentale suggerimento di gestire in maniera adeguata i compensi dell’attività professionale, l’ordinanza quivi commentata è particolarmente interessante perché consente di riflettere sulle modalità di accertamento dell’amministrazione finanziaria e sulle “situazioni di pericolo” che è il caso di evitare, se non altro per non far seguire al danno del mancato pagamento anche la beffa dell’eventuale recupero impositivo. Inutile dire, appare anche ovvio sottolinearlo, che nel caso in cui sia stata realizzata davvero un’evasione non vi è prevenzione che tenga e bisogna evidentemente appellarsi soltanto al proprio santo protettore o altra divinità preferita, nel noto adagio “speriamo che vada bene”.

Ma trattasi solo di mera “scommessa”, del tutto avulsa da qualsiasi riflessione tecnica.

In ordine invece al concreto svolgimento dell’attività professionale e all’attività di controllo esercitata dal fisco è innanzitutto consigliabile dare uno sguardo a quelle che sono le indicazioni di massima fornite a livello centrale, da ultimo contenute nella circolare n. 4 del 2021.

Con specifico riguardo al mondo professionale, nel richiamato documento di prassi si evidenzia anzitutto che la selezione per i “fortunati” sottoposti a controllo sarà realizzata, in linea generale, attraverso l’utilizzo delle banche dati utili a evidenziare le situazioni più rilevanti emerse da un’attenta analisi del rischio.

In tale direzione sono importanti le anomalie segnalate dagli ISA, soprattutto se rappresentano una forte illogicità nello svolgimento dell’attività e le eventuali discrasie con le segnalazioni “clienti/fornitori” di altri soggetti. Dopo di che particolare interesse sarà rivolto alle posizioni:

  • dei soggetti che non hanno giustificato l’anomalia comunicata dalla medesima amministrazione finanziaria o non hanno modificato il loro comportamento a seguito della ricezione della comunicazione per la promozione dell’adempimento spontaneo. In sostanza il fisco vorrà comprendere come mai, pur se avvisati, i contribuenti non hanno mutato il loro comportamento fiscale. Sia chiaro, non sussiste alcun obbligo ad adempiere alla comunicazione ricevuta, ma in caso di mancato adempimento è di tutta evidenza necessario prepararsi ad illustrare le condizioni giustificatrici sottostanti;
  • di coloro che sono stati esclusi dall’invio delle comunicazioni finalizzate a favorire l’adempimento spontaneo a causa della omessa dichiarazione dei redditi e che risultano aver percepito e non dichiarato, in tutto o in parte, uno o più redditi appartenenti a diverse categorie reddituali.

Una volta “selezionati”, diviene fondamentale comprendere le linee guida utilizzate in sede di controllo, rinvenibili dalle note metodologiche che nel tempo la sede centrale dell’Agenzia delle Entrate ha elaborato per supportare l’azione di verifica sul campo.

Con specifico riguardo ai professionisti, anzitutto gli organi di controllo devono porre attenzione ai c.d. “elementi rilevanti”. Vanno dunque osservati alcuni fattori caratterizzanti, quali la numerosità dei clienti, l’età del professionista (o dei professionisti), il prestigio raggiunto dallo studio, la circostanza se trattasi di studio di proprietà o meno e le relative spese sostenute al riguardo, anche per eventuali ristrutturazioni, le polizze assicurative contratte, le modalità di fatturazione e di acconti solitamente adottate, la descrizione della prestazione, la coerenza di importi, comportamenti e tariffari. Il tutto peraltro anche con la possibilità/opportunità di procedere ad eventuali riscontri con i clienti.

Il perché di simili indagini è abbastanza semplice da comprendere: numero dei clienti, prestigio dello studio, proprietà dello stesso e rilevanza delle spese sostenute sono rappresentative di una forza “economica e finanziaria” importante. L’entità delle polizze assicurative rappresenta una “spia” per quanto concerne la potenziale entità del “range” di incarichi assunti. La tecnica di fatturazione e di acconto e soprattutto la ripetitività o meno della stessa permette di isolare eventuali comportamenti anomali rispetto agli “standard”. Nella stessa direzione si pongono la coerenza degli importi, l’applicazione dei tariffari ed i comportamenti assunti in sede di pattuizione dei corrispettivi. Ovvio che nel mondo professionale sono diversi i fattori che devono essere considerati nella valutazione di una prestazione. La marginalità, infatti, varia a seconda del valore della pratica; i rapporti continuativi possono indurre a praticare sconti rilevanti (si pensi ad esempio al notaio di fiducia di una importante impresa di costruzione e vendita di immobili, nel qual caso la numerosità degli atti da redigere porta ad applicare tariffe ai minimi e riduzioni di vario genere); le scelte possono dipendere anche dalla volontà di investire al fine di intercettare nuova clientela; e così via.  Deve trattarsi, comunque, di motivazioni valide e comprovate da fatti sostanziali, oltre che ovviamente da una adeguata marginalità complessiva.

Fatte queste riflessioni di carattere generale, residuano poi i controlli specifici sull’attività svolta. In tale direzione, come ci illustra l’ordinanza della Cassazione da cui siamo partiti, l’individuazione degli incarichi espletati rappresenta un elemento fondamentale per ricostruire le prestazioni eseguite e la stessa potrà avvenire, oltre che sulla base delle notizie attinte presso gli Uffici di riferimento del professionista (uffici giudiziari per gli avvocati, uffici tecnici per ingegneri e geometri, uffici fiscali per i commercialisti etc), anche attraverso l’esame:

  • della documentazione extracontabile e dell’altra documentazione acquisita all’atto dell’accesso;
  • dei fascicoli relativi ai clienti;
  • delle schede o dell’archivio clienti, attraverso un’attenta ricognizione dei dati riportati negli schedari e/o nei programmi informatici di gestione, in modo da avere le maggiori informazioni possibili circa lo svolgimento dell’attività, i compensi pattuiti e le relative modalità di incasso.

Inutile dire che al riguardo fondamentali sono le formalizzazioni degli incarichi ricevuti (peraltro obbligatoria), dovendo prestare particolare attenzione anche alle condizioni praticate e alle motivazioni sottostanti, illustrando infine le procedure assunte per il recupero degli insoluti (o le transazioni concluse). Insomma, tutto deve avere una spiegazione logica, essendo altrimenti “più” logica la presunzione accertativa che i compensi siano stati occultati, come l’ordinanza della Corte di Cassazione in commento in maniera esemplare illustra.