STP – reddito d’impresa o di lavoro autonomo? Dipende!

Il Pronto Fisco di dicembre, a cura di Lelio Cacciapaglia e Maurizio Tozzi

di Lelio Cacciapaglia e Maurizio Tozzi

 

Se la situazione era già complicata, adesso è addirittura inestricabile.

Ci mancava la Sentenza 17 marzo 2021, n. 7407 della Corte di Cassazione per mischiare tutte le carte. Secondo la Suprema Corte, la società tra professionisti (nel caso di specie STP composta da avvocati) può essere soggetta alle regole del reddito d’impresa oppure a quelle sul lavoro autonomo. Dipende da come è strutturata l’attività, vale a dire se prevale l’elemento organizzativo tipico delle imprese o se prevale la figura dei professionisti che vi operano.

In sostanza non se ne esce più.

Da dove nesce il contenzioso

La questione giunge all’attenzione della Cassazione dopo due gradi di giudizio che ha visto contrapporsi una STP (studio legale) ad un loro cliente Spa il quale, nel pagare la fattura delle prestazioni legali svolte dalla STP, aveva trattenuto (e versato all’Erario) la ritenuta d’acconto del 20% sulla somma corrisposta quale onorario per la composizione bonaria di una controversia, pendente innanzi ad altra autorità giudiziaria.

La STP ha richiesto alla SPA il versamento della somma trattenuta (indebitamente secondo lo studio legale) posto che, essendo un soggetto societario e dichiarando reddito d’impresa la suddetta ritenuta era stata effettuata impropriamente. Posto il rifiuto da parte della Spa ne è nato il contenzioso.

Entrambi i due precedenti gradi di giudizio hanno visto soccombente la STP che pretendeva la restituzione della ritenuta e la Cassazione non fa che confermare le precedenti decisioni. Il percorso argomentativo della suprema Corte è piuttosto articolato ma le conclusioni suscitano più di qualche dubbio sotto il profilo della rispondenza alle norme di legge e soprattutto introducono un elemento di oggettiva incertezza posto che occorre valutare caso per caso la struttura della STP e le modalità con cui svolge la propria attività.

Ed infatti, per andare al dunque, la Cassazione ha eccepito che la STP non ha prodotto in giudizio elementi per dimostrare che l’attività da essa svolta fosse d’impresa e non fosse professionale. Di conseguenza è giusto che la Spa abbia trattenuto la ritenuta d’acconto considerando la prestazione svolta come professionale. Ergo, se la STP a responsabilità limitata avesse fornito elementi che dimostrassero che il reddito prodotto era effettivamente d’impresa, allora avrebbero potuto ottenere la restituzione della ritenuta.

E così il caos è servito su un piatto d’argento.

La sentenza della Cassazione – le motivazioni della STP

Preliminarmente merita di essere sottolineato come la ricorrente STP evidenzia (correttamente) che il riferimento all’art. 28 (in realtà, 27) del disegno di legge “Semplificazioni fiscali in materia societaria”, richiamato nella sentenza di appello che l’ha vista soccombente, secondo cui alle società tra professionisti costituite per l’esercizio di attività professionali si applica il regime fiscale delle associazioni  senza personalità giuridica, è fuori luogo posto che il suddetto disegno di legge venne stralciato dal Parlamento.

Le norme a cui fare riferimento, invece, sono (altrettanto correttamente) l’art. 10 della legge 12 novembre 2011, n. 183 e il regolamento di attuazione emanato con decreto del Ministro della giustizia dell’8 febbraio 2013, n. 34, normativa che consente di costituire società, anche di capitale, tra professionisti, per l’esercizio di attività professionali regolamentate in un sistema ordinistico.

Per completezza, la ricorrente STP segnala la nota del 19 dicembre 2017, n. 43619, della Direzione della legislazione tributaria e federalismo fiscale del Dipartimento delle Finanze, secondo cui la S.r.l., costituita per lo svolgimento di attività forense, deve adottare il regime fiscale previsto per la società di capitali e deve assoggettare il proprio reddito ad IRES e il valore della produzione ad IRAP, giacché, in  assenza di un’esplicita norma, “l’esercizio della professione forense svolta in forma societaria costituisce attività di impresa, in quanto risulta determinante il fatto di operare in una veste giuridica societaria, piuttosto che lo svolgimento di un’attività professionale”. Di analogo tenore è anche la risoluzione n. 35 del 7 maggio 2018 dell’Agenzia delle Entrate. Peraltro, l’art. 25 del d.P.R. n. 600 del 1973 è chiaro nel prevedere che la ritenuta d’acconto non deve essere operata “per prestazioni effettuate nell’esercizio di imprese”.

La sentenza della Cassazione – le motivazioni

Dando atto delle osservazioni difensive esposte dalla ricorrente STP, la suprema Corte, nella propria decisione, osserva come le società tra avvocati, costituite ai sensi del d.lgs. 2 febbraio 2011, n. 96, malgrado la forma societaria, non siano per ciò solo annoverabili tra le società commerciali, come peraltro anche precisato (ammesso) dall’Agenzia delle Entrate nella risoluzione del 31 marzo 2008, n. 118/E (rectius, trattasi della  risoluzione del 26 maggio 2003, n. 118/E), dalla quale emerge piuttosto l’esigenza di valorizzare la prestazione professionale dei soci. In tale occasione l’Agenzia ha sottolineato come il rinvio alle disposizioni che regolano il modello societario operi solo a fini civilistici, mentre a fini fiscali, per ragioni di coerenza del sistema impositivo, occorre dare risalto al reale contenuto professionale dell’attività svolta. D’altra parte, a sostegno della natura non imprenditoriale delle società tra professionisti, rileva (continua l’Agenzia) anche la ritenuta non assoggettabilità delle stesse al fallimento.

Va detto, francamente, che quanto ora afferma la Cassazione non fa una piega dal momento che è sacrosanto che l’Agenzia a suo tempo (sulla scorta di indicazioni contenute nella relazione illustrativa alla norma) si è espressa come sopra riportato mentre poi, quando ha affrontato la novità della nuova norma che ha introdotto le STP ha cambiato idea, senza che norma fornisse alcuna sponda per tale cambiamento di fronte e in assenza di qualsivoglia indicazione utile della relazione illustrativa. Viceversa, sempre l’Agenzia delle Entrate, per le società di ingegneria, con la risoluzione 4 maggio 2006, n. 56/E, dopo aver ribadito che dette società si costituiscono in forma di società di capitali e hanno come oggetto sociale l’esecuzione di studi di fattibilità, ricerche, consulenze, progettazioni o direzioni dei lavori, valutazioni di congruità tecnico economica o studi di impatto ambientale, ha affermato che nella qualificazione del reddito prodotto da dette società non assume alcuna rilevanza il presupposto oggettivo, essendo viceversa determinante il solo presupposto soggettivo. Dunque, tali società rientrano nella categoria del reddito di impresa per il solo fatto di essere realizzato da un soggetto costituito sotto forma di società di capitali. Successivamente, su sollecitazione dello stesso Ordine dei dottori Commercialisti e degli esperti Contabili, l’Agenzia delle Entrate, con parere reso il 18 ottobre 2014, ha ribadito tale tesi, riaffermando che “dette società professionali non costituiscono un genere autonomo con causa propria ma appartengono alle società tipiche disciplinate dai Titoli V e VI del Libro V del codice civile e, pertanto, sono soggette integralmente alla disciplina legale del modello societario prescelto, salve le deroghe e le integrazioni previste dalla disciplina speciale contenuta nella legge n. 183 del 2011 e dal regolamento attuativo” e che “non assume alcuna rilevanza l’esercizio dell’attività professionale, risultando a tal fine determinante il fatto di operare in una veste giuridica societaria”. Ancora, con la risoluzione 7 maggio 2018, n. 35/E ha, l’Agenzia con riferimento alle STP, ha precisato che risulta prevalente la veste giuridica assunta secondo le forme tipiche del codice civile, piuttosto che lo svolgimento di un’attività professionale, con conseguente riconducibilità del reddito prodotto nella categoria dei redditi di impresa. La diversa soluzione adottata nella risoluzione n. 118 del 2003 per le società tra avvocati di cui al D. Lgs. n. 96 del 2001 (si legge sempre nella Risoluzione n. 35/2018) rimarrebbe, però, valida, considerata l’autonoma disciplina dì queste ultime società. È bene dire che quest’ultima disciplina (definita autonoma) nulla prevede (come già detto) in ordine alla qualificazione fiscale così come nulla prevede quella altrettanto autonoma delle STP.

Tutto ciò la Cassazione non ha mancato di sottolinearlo definendolo come “un affastellarsi disordinato e contraddittorio di risoluzioni dell’Agenzia delle Entrate”.

Il percorso argomentativo della Cassazione

Prosegue la Cassazione con una affermazione di principio: posto che la norma istitutiva delle STP nulla prevede circa le regole fiscali della stessa, ci si trova di fronte ad un bivio: la natura, ai fini fiscali, del reddito prodotto dalle società tra professionisti emerge dall’analisi del presupposto:

  • soggettivo, vale a dire, la natura del soggetto che produce il reddito,

ovvero quello

  • oggettivo, che ha riguardo, invece, ai caratteri dell’attività svolta da
    tali società.

In un’ottica puramente “soggettiva”, siccome le società tra professionisti possono essere costituite secondo i modelli regolati dai Titoli V e VI del Libro V del codice
civile, dunque, anche nella forma delle società commerciali, il loro reddito,
ai fini delle imposte relative, dovrebbe essere qualificato come di impresa. Senonché, ai fini fiscali, le società in nome collettivo e in accomandita semplice così come le società di capitali, generano redditi di impresa a prescindere dalla fonte reddituale e dall’oggetto sociale (art. 5 e 73 del TUIR). Ma, prosegue la Corte, il medesimo reddito andrebbe più correttamente qualificato come da lavoro autonomo (art. 53 del Tuir) posto che ai sensi dell’art. 10, comma 3, della legge 12 novembre 2011, n. 183, le società tra professionisti sono espressamente costituite per l’esercizio di attività professionali regolamentate all’interno del sistema ordinistico.

Ebbene, secondo la Suprema Corte quello che deve guidare l’interpretazione è l’art. 2238 cod. civ. il quale stabilisce che “Se l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma di impresa si applicano anche le disposizioni del titolo II.”

Dunque, tutto sta nel …”se”! Facile a dirsi, parecchio complicato a sapersi.

Conclusioni della Cassazione

Preliminarmente il Collegio afferma che per quanto “le circolari ministeriali in materia tributaria non costituiscano fonte di diritti ed obblighi, non discendendo da esse alcun vincolo neanche per la stessa Amministrazione finanziaria che le ha emanate” (cfr., “ex
multis”, Cass. Sez. 5, sent. 30 settembre 2009, n. 20819, Rv. 658996-02), le loro risultanze costituiscono un dato che, in questa sede, non può essere ignorato, e con il quale confrontarsi.

Nondimeno, la qualificazione del reddito di una società tra professionisti, come reddito di impresa, deve farsi dipendere dalla concreta configurazione della società, ed in particolare dalla presenza all’interno di essa (da accertarsi, dunque, caso per caso), di un autonomo profilo organizzativo, rispetto al lavoro professionale, “capace di spersonalizzare l’attività svolta” e “di fornire, come struttura a sé stante, quella stessa prestazione professionale che connota l’attività personale tipica del professionista”. Siffatta impostazione muove dalla premessa secondo cui, in assenza di una previsione specifica nella disciplina di secondo grado (quella fiscale), torna ad avere applicazione diretta quella civilistica (ovvero, di primo grado), e ciò in quanto, ponendosi quella di cui al codice civile come normativa generale, che normalmente “cede il passo alla normativa fiscale «speciale» che disciplina un determinato aspetto dell’istituto nell’ambito di una imposta, o di gruppo di imposte”, in assenza di quest’ultima è la prima che ritorna ad essere direttamente applicabile.

In questa prospettiva, la norma chiave è costituita dall’art. 2238 cod. civ., la quale, se in linea generale nega – ancorché in modo indiretto – la natura commerciale delle attività dei professionisti intellettuali e degli artisti, stabilisce, nel contempo, che a tali attività intellettuali e artistiche si applichino le disposizioni dettate in relazione all’impresa commerciale, allorché le prestazioni professionali costituiscono elemento di una attività organizzata in forma d’impresa. In sostanza, quando l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma di impresa, ovvero quando prevalga il carattere dell’organizzazione del lavoro altrui e del capitale sulla prestazione di lavoro intellettuale, il professionista – secondo questa impostazione dottrinaria, che questa Corte reputa di fare propria – acquista la qualità di imprenditore ai sensi dell’art. 2082 cod. civ., con conseguente applicabilità della relativa disciplina.

Secondo la Corte Un riscontro di tali assunti è, del resto, offerto dalla sentenza 21 maggio 2001, n. 156, della Corte costituzionale la quale ha ribadito che l’IRAP colpisce il valore
aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate, ma ha anche affermato
che “mentre l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l’attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità, nel senso che è possibile ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitali o lavoro altrui”.

In conclusione, similmente a quanto accade ai fini del riconoscimento della debenza dell’IRAP da parte dei liberi professionisti, da escludersi “nel caso di una attività professionale che fosse svolta in assenza di elementi di organizzazione”, risultando, in tal caso, “mancante il presupposto stesso” della pretesa impositiva anche ai fini dell’applicazione della ritenuta di acconto alle società tra professionisti, la qualificazione come reddito di impresa, del reddito dalle stesse prodotte, presuppone che le prestazioni di lavoro autonomo costituiscano elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa, risultando, così, inserite in strutture che sono frutto dell’impiego del capitale, ovvero che il lavoro del professionista ed il capitale concorrano entrambi nella produzione del reddito, sicché quest’ultimo non potrà ritenersi derivante dal – solo lavoro, ma dall’intera struttura imprenditoriale. Nondimeno, proprio alla stregua di tale impostazione, deve pervenirsi al rigetto del ricorso, in difetto di dimostrazione della sussistenza di un’attività diversa e ulteriore, nel caso in esame, rispetto a quella professionale, che permetta di qualificare il reddito della società, nelle cui forme è costituito lo studio professionale odierno ricorrente, come reddito di impresa.

Considerazioni finali

La sentenza della Cassazione non convince per difetto delle sue fondamenta. Fatto totale acquiescenza al fatto che l’agenzia delle entrate nel tempo si è espressa in modo contraddittorio e improbabile, quello che non convince del ragionamento della Corte è il suo presupposto di base: “in assenza di una previsione specifica nella disciplina di secondo grado (quella fiscale), torna ad avere applicazione diretta quella civilistica (ovvero, di primo grado)”.  

La norma fiscale è una norma di primo grado (non di secondo grado) ed è quella che ha il predominio in materia fiscale, talché se una norma disciplina una materia senza tuttavia fornire le regole fiscali, va da sé che si applica la norma primaria che nel caso di specie è il Tuir. Il riferimento all’articolo 54 (determinazione del reddito di lavoro autonomo) e agli articoli 5 e 73 (determinazione del reddito d’impresa) che secondo la Cassazione consentirebbero di ricondurre il reddito professionale svolto sotto forma societaria, a seconda delle modalità in cui è svolto, nel lavoro autonomo o in quello d’impresa, non appare condivisibile tenuto conto della diversa collocazione dei predetti articoli in sezioni diverse del Tuir.  È indubitabile che tutte le società commerciali (analiticamente elencate nell’articolo 73) dichiarano reddito d’impresa e che l’articolo 54 del Tuir non può essere riferito a soggetti societari, salvo l’ipotesi della società semplice che non può svolgere attività commerciale.

Ma quello che preoccupa di più non è tanto quanto ora detto, piuttosto la circostanza del dover verificare di volta in volta l’elemento organizzativo della STP per comprendere dove collocarsi fiscalmente: tale impostazione è suscettibile di alimentare un contenzioso tributario senza fine perché senza alcun elemento di certezza per orientarsi.

Non resta (sembra un paradosso) che affidarsi all’agenzia delle entrate che nella recentissima risposta n. 600 del 16 settembre 2021 ha ribadito che “le S.T.P. possono essere costituite ricorrendo sia ai tipi societari delle società di persone che a quelli delle società di capitali ovvero anche al tipo della società cooperativa. Dette società professionali non costituiscono un genere autonomo con causa propria, ma appartengono alle società tipiche disciplinate dai titoli V e VI del libro V del codice civile e, pertanto, sono soggette integralmente alla disciplina legale del modello societario prescelto, salve le deroghe e le integrazioni previste dalla disciplina speciale contenuta nella Legge n. 183 del 2011 e nel regolamento attuativo. Ne consegue che anche per le S.T.P. trovano conferma le previsioni di cui agli articoli 6, ultimo comma, e 81 del TUIR, per effetto delle quali il reddito complessivo delle società in nome collettivo e in accomandita semplice, delle società e degli enti commerciali di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell’art. 73, comma 1, lettere a) e b), da qualsiasi fonte provenga, è considerato reddito di impresa. Ai fini della qualificazione del reddito prodotto dalle S.T.P., non assume alcuna rilevanza, pertanto, l’esercizio dell’attività professionale, risultando a tal fine determinante il fatto di operare in una veste giuridica societaria (cfr. Risoluzione n. 35/E del 2018).”.

 

E speriamo che gli uffici dell’agenzia, siccome la Cassazione la ‘pensa diversamente, non si sentano autorizzati in sede di verifica a disconoscere le istruzioni della Direzione Centrale.

 

La Cassazione si pronuncia sulla natura del reddito prodotto dalle Stp

di Lucia Recchioni Scarica in PDF La scheda di EVOLUTION

La mancanza di una norma volta ad individuare la natura del reddito prodotto dalle Stp rende necessaria un’attività interpretativa che può condurre anche a risultati tra loro non conformi, e che si riflette in un “affastellarsi disordinato e contraddittorio di risoluzioni dell’Agenzia delle entrate”.

Nell’ambito di questo quadro così incerto si inserisce la sentenza della Corte di Cassazione n. 7407, depositata ieri, 17 marzo, con la quale è stata confermata l’applicabilità della ritenuta a titolo d’acconto sui compensi corrisposti ad una Stp, non essendo stata fornita prova dell’attività svolta in maniera imprenditoriale.

Una conclusione, questa, che diverge totalmente dalle precedenti interpretazioni dell’Agenzia delle entrate e che richiede un’analisi delle singole fattispecie che rende ancora più complessa e di difficile applicazione questa particolare disciplina.

Il caso riguarda uno studio legale, costituito come S.r.l. tra professionisti, che aveva emesso una fattura a fronte della quale la società cliente non aveva pagato l’intero importo ma aveva trattenuto la somma quantificata a titolo di ritenuta d’acconto.

Lo studio legale, pertanto, chiedeva e otteneva il decreto ingiuntivo, richiamando, tra l’altro, le circolari dell’Agenzia delle entrate che qualificavano gli importi fatturati come reddito d’impresa e non come redditi di lavoro autonomo.

La società cliente proponeva però opposizione al decreto ingiuntivo, risultando vittoriosa.

La problematica è giunta quindi dinanzi alla Corte di Cassazione, la quale ha posto l’accento sulla grave lacuna normativa che caratterizza la disciplina delle società tra professionisti: si rende pertanto necessario interpretare la norma, con esiti che possono essere diametralmente opposti, a seconda che si intenda privilegiare il presupposto soggettivo (ovverosia la natura del soggetto che produce il reddito, che, come noto, è una società commerciale) o quello oggettivo (vale a dire con riferimento ai caratteri dell’attività svolta, che resta un’attività professionale).

La stessa Agenzia delle entrate ha mostrato non pochi problemi interpretativi: la Corte di Cassazione, citando la dottrina, parla infatti di “un affastellarsi disordinato e contraddittorio di risoluzioni”.

La Corte di Cassazione propone dunque, nella citata sentenza, un lungo esame delle prassi applicative dell’Amministrazione finanziaria, risalendo fino alla risoluzione 118/E/2003 con la quale fu qualificato come reddito di lavoro autonomo quello prodotto dalle società tra avvocati di cui agli articoli 16 e ss. D.Lgs. 96/2001; a conclusioni diametralmente opposte era invece giunta la stessa Agenzia delle entrate con la successiva risoluzione 56/E/2006, che aveva qualificato come reddito d’impresa quello prodotto dalle società di ingegneria.

Con riferimento, infine, alle Stp, l’Agenzia delle entrate ha ritenuto di dover valorizzare la veste giuridica della società, ritenendo invece che la tipologia di attività svolta non assumesse alcun rilievo.

Queste conclusioni trovarono conferma non solo nel parere del 18.10.2014 reso su sollecitazione dell’Ordine dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, ma anche nell’ambito della risoluzione 35/E/2018, con riferimento alle società tra avvocati costituite ai sensi della L. 247/2012, nonché in altri numerosi documenti di prassi citati nella sentenza in esame.

Alla luce dell’analisi condotta la Corte di Cassazione ricorda quindi che, per quanto le circolari dell’Agenzia delle entrate “non costituiscano fonte di diritti ed obblighi, non discendendo da essere alcun vincolo neanche per la stessa Amministrazione finanziaria che le ha emanate”, le loro risultanze costituiscono un dato che non può essere ignorato.

Tuttavia, la Corte di Cassazione giunge ad una diversa conclusione, ritendendo di dover far discendere la natura del reddito prodotto dalla concreta configurazione della società, e, in particolare, dalla presenza o meno di un autonomo profilo organizzativo, rispetto al lavoro professionale.

Mancando una disciplina fiscale è infatti necessario far ricorso a quella civilistica: in tal senso assume dunque rilievo la previsione dell’articolo 2238 cod. civ., in forza del quale “Se l’esercizio della professione costituisce elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa, si applicano anche le disposizioni del titolo II [dedicato al lavoro d’impresa]”.

Alla luce della richiamata disposizione, dunque, la Corte di Cassazione precisa quanto segue: “perché in una società tra professionisti possa aversi attività imprenditoriale, occorre anche una attività diversa e ulteriore rispetto a quella professionale, per cui il conferimento dell’apporto intellettuale si configura solo come una delle componenti dell’organizzazione, e ciò in quanto l’attività autonomamente organizzata non potrebbe identificarsi in quella tipica svolta dal professionista individuale, connotata dal carattere della personalità”.

Affinché possa essere esclusa l’applicazione della ritenuta d’acconto, dunque, è necessario verificare che le prestazioni di lavoro autonomo costituiscano elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa, ovvero che il reddito sia frutto non solo del lavoro del professionista, ma dell’intera struttura imprenditoriale.

La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, ha dunque ritenuto applicabile la ritenuta d’accontonon essendo stata dimostrata la sussistenza di un’attività diversa e ulteriore rispetto a quella professionale

 

Non sono mancate esternazioni di perplessità sulle conclusioni avanzate da questa sentenza.

La più solida delle critiche si basa sul fatto che l’articolo 81 e l’articolo 6 comma 3 del TUIR attraggono al reddito d’impresa i redditi in ogni caso prodotti dalle società, e questo è indubbiamente vero, ma il rilievo si esaurisce già nelle premesse del procedimento logico che ha portato alle conclusioni della sentenza, e cioè nel fatto che una STP soggettivamente è una società ma oggettivamente esercita una attività professionale; e la corte ha deciso di dare priorità al profilo oggettivo, precisando però, per coerenza con il Codice civile, che, se l’attività esercitata è in prevalenza professionale, il reddito prodotto è di lavoro autonomo, se sono presenti profili di organizzazione, di lavoro (non professionale) e di capitale, sufficienti a superare questa prevalenza, il reddito è d’impresa.

Sono delle conclusioni coerenti con il principio di prevalenza della sostanza sulla forma, che sempre dovrebbe regolare il contesto interpretativo delle più diverse situazioni nel sistema italiano; il fatto, evidente, che l’applicazione di questo principio, creando incertezza, non aiuterà la diffusione di uno strumento già scarsamente utilizzato, non è colpa né del principio né di chi lo applica, ma di una normativa che non delinea con fermezza le fondamentali regole di funzionamento della fattispecie.

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