L’Unione in bilico

Alla vigilia del voto di giugno, l’Unione europea appare un gigante con i piedi d’argilla. La crisi economiche e migratorie, la guerra in Ucraina e il conflitto tra Israele e Hamas hanno messo in luce tutti i limiti di un processo decisionale tortuoso e conflittuale. Che si riflette nelle scelte di politica estera, nella competitività delle imprese e della disaffezione dell’elettorato. Un quadro reso ancor più complesso dalle contrapposizioni tra i paesi membri, dai nazionalismi e dal dilagare dei partiti euroscettici

di Giovanni Francavilla – da il Libero Professionista Reloaded #24

 

Il destino dell’Unione europea è appeso alla sua capacità di governare i profondi cambiamenti economici e sociali in atto, ma soprattutto al ruolo che riuscirà a conquistare in uno scenario geopolitico estremamente instabile e complesso. La guerra in Ucraina, il conflitto tra Israele e Hamas e le tensioni nel Mar Rosso, senza trascurare le incognite legate alle prossime elezioni negli Stati Uniti, hanno portato alla luce tutti i limiti e le fragilità politiche delle istituzioni europee che ora sono attese a quel «cambiamento radicale» evocato da Mario Draghi, per garantire la propria autonomia nei settori strategici dell’economia (energia, ambiente, tecnologie, industria e difesa), attraverso obiettivi più coerenti con il mutato quadro competitivo internazionale e, al tempo stesso, per rafforzare la politica estera e le relazioni economiche internazionali, governate dalla forte contrapposizione tra gli Stati Uniti e la Cina.

L’Unione europea appare oggi un gigante con i piedi d’argilla. Con circa 450 milioni di cittadini, un tessuto produttivo di oltre 23 milioni di imprese, 240 milioni di lavoratori e ben 5,6 milioni di liberi professionisti, l’Europa rappresenta una potenza economica a livello globale, un mercato unico che sviluppa un Prodotto interno lordo di 14.552 miliardi di euro (circa il 16% del Pil mondiale) nella più vasta area di libera circolazione delle persone e di libero scambio delle merci. Le previsioni macroeconomiche, peraltro, indicano un rimbalzo del Pil tra il 2024 e il 2025, sostenuto dal recupero dei redditi reali delle famiglie, dalla positiva intonazione del mercato del lavoro e dal progressivo allentamento della politica monetaria verso una graduale riduzione dell’inflazione, che dovrebbe mitigare la pressione sui prezzi dei beni di consumo e dell’energia.

 

I nodi al pettine

Tuttavia, il potenziale sviluppo dell’Unione europea rimane sostanzialmente inespresso a causa di una governance che negli ultimi cinque anni ha messo al centro della sua azione politica ambiziosi progetti, che hanno avuto il merito di incanalare la crescita verso la sostenibilità ambientale e la transizione digitale ma che, in un quadro regolatorio tanto rigido quanto asfissiante, peccano di una certa presunzione alla luce di uno scenario economico debole e instabile e delle profonde differenze e specificità che insistono tra i Paesi membri. Tale impostazione ha avuto riflessi sia sul piano economico e produttivo sia su quello più strettamente politico.

Il tessuto imprenditoriale e industriale europeo sconta oggi un preoccupante deficit dimensionale e gravi ritardi competitivi rispetto ai colossi americani e cinesi, soprattutto nei campi della difesa, dell’energia, della finanza e delle tecnologie. Il futuro del Mercato unico, minacciato dai cambiamenti demografici e dalla trasformazione delle economie globali, si gioca sul filo della competitività e dell’integrazione, insiste Enrico Letta nel suo rapporto “Much more than a market” consegnato a fine aprile al Consiglio europeo. La ricetta dell’ex premier ridisegna il sistema europeo degli aiuti di Stato e punta sull’integrazione del mercato dei capitali, dell’energia e delle telecomunicazioni per colmare i divari di crescita, produttività, innovazione e capacità di creare nuovi posti di lavoro rispetto ai principali competitor internazionali. Ma a Bruxelles tutti aspettano con trepidazione il Rapporto sulla competitività europea di Mario Draghi, che sarà consegnato dopo le elezioni del 6-9 giugno e prima del Consiglio europeo del 27 e 28 giugno, quando si dovranno decidere le nomine ai vertici della Commissione e dello stesso Consiglio.

Molti osservatori internazionali si sono spinti ad annotare che le “considerazioni finali” dell’ex presidente della Banca centrale europea tracceranno la rotta della prossima legislatura europea e già si auspica un cambiamento radicale delle politiche economiche dell’Ue nello scacchiere geopolitico internazionale. In gioco c’è la leadership europea sui mercati mondiali, dove il Made in Italy, se valorizzato nella sua unicità, può ancora giocare un ruolo strategico nel traino dei processi di internazionalizzazione, grazie anche al contributo delle libere professioni.

 

Quale strategia?

In Italia e in tutta Europa, i leader politici e i manifesti elettorali dei partiti convergono sulla necessità di creare un ambiente favorevole all’imprenditorialità. Sulla carta il primo passaggio punta a dare concretezza e rapidità al nuovo Patto europeo sulla competitività all’esame del Consiglio europeo, per rafforzare l’integrazione del mercato interno, incrementando la produttività e la crescita sostenibile secondo un modello economico innovativo e resiliente. E non è un caso che i professionisti italiani spingano per istituire un Commissario ad hoc per le Pmi nell’ottica di arrivare a delineare una strategia di crescita delle professioni verso un’Europa delle competenze più resiliente, competitiva e sostenibile.

Più complesso, invece, dare forma alle politiche economiche che dovranno sostenere la competitività sia all’interno del Mercato unico sia su scala globale attraverso adeguati finanziamenti alle imprese per la ricerca e le infrastrutture digitali. Un vicolo ancor più stretto se si guarda alla duplice transizione, ambientale e digitale, avviata sotto la presidenza di Ursula von der Leyen, che richiede ingenti investimenti per compensare la carenza di materie prime e individuare fonti di approvvigionamento alternative per raggiungere l’indipendenza energetica attraverso lo sviluppo delle fonti rinnovabili e della produzione di idrogeno e l’integrazione dei sistemi energetici nel processo di transizione verso la neutralità climatica. Ma a che prezzo?

Il quadro finanziario pluriennale dell’Ue per 2021-2027 ha previsto un bilancio di 1.074,3 miliardi di euro che, insieme ai 750 miliardi stanziati nell’ambito del Next Generation Ue, raggiunge la cifra di 1,8 trilioni di euro per far fronte alle esigenze di spesa del Mercato unico (innovazione, digitale, coesione), ai finanziamenti destinati all’ambiente e alle risorse energetiche, alle politiche migratorie, della sicurezza e della difesa. In prospettiva, però, il prossimo bilancio pluriennale 2028-2034 difficilmente potrà sostenere gli stessi livelli di spesa, tenuto conto che la sola transizione verde assorbirà 600 miliardi all’anno (1,5 trilioni di euro fino al 2050), come indica un rapporto della Commissione europea. A meno che non si decida di creare un nuovo debito comune. Materia facilmente infiammabile sull’asse tra Bruxelles e Strasburgo.

 

Crescono le divisioni

Su questo punto, infatti, si incrociano pericolosamente le ambizioni economiche e politiche del futuro dell’Unione europea. La rigidità di diverse disposizioni normative (dal Green deal alla direttiva per il miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici, fino al nuovo Patto di stabilità), insieme alle crisi migratorie e alle misure introdotte a sostegno dell’Ucraina, hanno esacerbato il confronto e aumentato le divisioni tra i Paesi membri, allontanando quello spirito solidaristico che aveva caratterizzato il periodo pandemico.

Il braccio di ferro sul nuovo Patto di Stabilità e crescita ha riacceso le contrapposizioni tra i Paesi del Nord Europa, i cosiddetti frugali, favorevoli a una politica di rigore nel percorso di riduzione del debito e del deficit, e quelli dell’area mediterranea, più indebitati e più favorevoli a una maggiore flessibilità. Un confronto serrato che si riflette anche nella revisione dei trattati e delle riforme necessarie per semplificare le procedure decisionali nell’Unione, ingessate dal principio di unanimità e dal diritto di veto. In questa prospettiva la X Legislatura europea dovrà avere la forza di affrontare i nodi che hanno rallentato i processi decisionali dell’Unione di fronte alle emergenze economiche o alle guerre ai confini dell’Europa, superando il principio dell’unanimità per le decisioni che riguardano la politica estera, la sicurezza, le politiche fiscali, il bilancio, la giustizia e il welfare (o quanto meno riaffermare il principio della maggioranza qualificata), e rafforzando il potere di iniziativa legislativa del Parlamento. In una cornice che possa assicurare, anche nella prossima legislatura, la prosecuzione dell’attuazione del Pilastro sociale e il consolidamento del modello sociale europeo.

L’insieme di questi fattori hanno determinato una sorta di disaffezione tra i circa 370 milioni di elettori dei 27 Paesi europei nei confronti delle istituzioni e degli indirizzi politici adottati negli ultimi cinque anni, alimentando una sempre più diffusa affermazione dei partiti euroscettici e sovranisti, soprattutto nei Paesi dell’Est Europa. In quest’ottica le elezioni di giugno potrebbero amplificare ulteriormente le divisioni tra i Paesi membri e rendere ancor più instabile un quadro politico europeo chiamato ad affrontare questioni strategiche di vitale importanza per il destino dell’Unione. Un banco di prova per i principi fondanti dell’Europa basati sulla democrazia, sui diritti, sul lavoro, sulla protezione sociale e sulla solidarietà; principi che hanno ispirato il trattato di Maastricht e favorito il processo di integrazione politica ed economica tra gli Stati membri.