di Guido Mattioni – da Il Libero Professionista Reloaded #26
Una regola canonica del vecchio giornalismo imponeva di non iniziare mai un articolo con una domanda. In questo caso, si può fare però un’eccezione. Perché mai, come oggi, è imperativo porci una domanda: che cosa stiamo mangiando? Interrogativo fatto proprio nel giugno scorso anche dall’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, dandosi e dandoci una risposta preoccupante: tre volte al giorno, tutti i giorni, nel mondo evoluto, o presunto tale, mangiamo veleni. Sì, veleni. Usare blandizie e giri di parole sarebbe fuorviante, se vogliamo dare il vero nome collettivo alla moltitudine di coloranti, conservanti, addensanti, dolcif icanti, miglioratori del gusto, antischiumogeni, antimuffa e via chimicheggiando, che ingoiamo da mattina a sera, perlopiù in modo inconsapevole. E dire che sono tutti – o quasi – elencati sulle etichette, se iniziassimo una buona volta a leggerle, prima di gettare automaticamente scatole, barattoli e altro nei carrelli della spesa. Soprattutto tenendo conto di quel “quasi”, dato che, per legge, le aziende possono omettere di menzionare molti di questi ingredienti nocivi. Spesso proprio i peggiori.
LA STRAGE NEL PIATTO
Dando per scontate le nocività del fumo, dell’alcol e dei gas dei combustibili fossili che respiriamo, responsabili insieme con l’alimentazione sbagliata, di 2,7 milioni di morti all’anno in tutto il mondo – 7 mila al giorno (291 ogni ora!) nella sola Europa – tra questi quattro nemici della nostra salute ce n’è però uno più temibile degli altri tre, perché siamo noi ad assumerlo in modo inconsapevole, o addirittura di gusto. A questo nemico l’OMS dà un nome e un cognome: cibo ultra-processato, quello cioè industriale, confezionato. Perché, se già da sola una dieta troppo ricca di sale uccide 252 mila cittadini europei ogni anno, altri 117mila morti sono direttamente riconducibili proprio al consumo eccessivo e abituale di cibi ultra-processati. Morti che vanno ad aggiungersi ai 15 mila derivanti dall’abuso di bibite iper-zuccherate.
E queste sono solo le cifre relative ai decessi conclamati: la punta emersa dell’iceberg. Sotto il pelo dell’acqua rimane il grosso. Il troppo. La strage. Non sono dati nuovi, ma purtroppo ignorati perfino da chi, come i media, avrebbero il dovere, prima che il diritto, di renderli noti al grande pubblico. Si possono citare, in proposito le risultanze più allarmanti, dello studio epidemiologico NutriNet-Santé, condotto in Francia tra il 2009 e il 2017 su un corposo panel di 107 mila persone (età media 43 anni); studio che dimostra addirittura il nesso tra il consumo di cibi ultra-processati e l’insorgenza dei tumori. Sì, dei tumori, non di semplici mal di pancia o disturbi digestivi. Eppure, nessun giornale italiano ne ha mai scritto un solo rigo. Silenzio tombale anche da parte dei maggiori network tv, sia pubblici sia privati. Tutto questo nonostante lo studio fosse stato pubblicato dal British Medical Journal proprio per autorevolezza, vastità del campione e arco di tempo di osservazione.
SALUTE AD ALTO RISCHIO
Ma la Notizia c’era. E che Notizia! Lo studio dimostra infatti l’elevata nocività dei cibi ultra-processati, quelli che affollano l’80% dei banconi dei supermarket e, di conseguenza, i nostri frigoriferi e dispense. Oltre a ribadire la già nota verità che i cibi in questione sono le vere fabbriche di ipercolesterolemia, ipertensione, diabete e obesità, lo studio ne collega il consumo a un aumentato rischio di insorgenza delle neoplasie. Gli imputati? I soliti noti: dolci, biscotti, pane industriale (quello in busta, in primis il pancarrè), merendine, dessert, cereali dolcificati e non integrali, bibite, energy drink (dannosissimi anche per il cuore), cioccolato al latte, margarina, carni trasformate (polpette, medaglioni, cordon bleu, prosciutto con additivi, salumi insaccati, eccetera), sughi pronti, paste e zuppe istantanee, sformati, le micidiali pizze surgelate e altre pietanze simili, pronte e solo da riscaldare o da far saltare in tegame, come fagottini ripieni, panzerotti, barrette di pesce impanate e via elencando. Ed ecco le conseguenze. Il loro consumo quotidiano è associato a un più elevato rischio di sviluppare tumori che va da +6% a +18 per cento. Nelle donne, la possibilità di sviluppare un cancro al seno sale tra il +2% e il +22 per cento. Non solo: nell’intero periodo e sul campione studiato sono stati registrati 2.228 casi di tumori (108 mortali) e 739 neoplasie mammarie. E ancora: chi, nell’arco della giornata, mangia un terzo di cibi confezionati, corre un rischio del 23% più elevato di sviluppare un cancro nei cinque anni successivi rispetto a chi ne mangia meno del 10 per cento. Inoltre, le donne che mangiano più del 33% di cibi pronti aumentano del 38% il rischio di cancro al seno dopo la menopausa; percentuale che “scende” al 27% prima della menopausa. Questo, per citare soltanto alcuni dei dati emersi dallo studio. Sono percentuali che possono destare allarmati “ohhh” di meraviglia nel grande pubblico disinformato. O suscitare, in molti, un’irritata incredulità. Sono purtroppo verità note a chi combatte in prima fila negli ospedali e negli ambulatori; e quindi sa, purtroppo, come patologie che fino a trent’anni fa erano esclusiva di adulti e anziani – morbo di Crohn, rettocolite ulcerosa e steatosi epatica, per citarne solo tre – sono divenute tristi realtà, perdipiù in aumento, già in fascia pediatrica. Colpisce per esempio la diffusione della steatosi epatica infantile (un tempo malattia dei vecchi) perfino nella sua forma più grave, quella con le cosiddette “aree di risparmio” che, al di là di come suona il loro nome, non sono cose buone, ma buchi che si aprono nel fegato, sfaldandolo. Già, il fegato, organo vitale. Anche per i bambini.
BIMBI ITALIANI PIÙ OBESI D’EUROPA
I cibi iper-processati sono inoltre caratterizzati dall’abuso di un altro veleno bianco, oltre al già citato sale, e cioè lo zucchero. Le linee guida dello IARC, l’Istituto internazionale per la ricerca sul cancro, ci dicono che la dose giornaliera di zuccheri aggiunti non dovrebbe superare i 25 grammi, pari a sei cucchiaini. Ma è doveroso menzionare anche l’appello lanciato qualche anno fa, forte e chiaro, dall’American Heart Association (l’Associazione dei cardiologi americani): “Via lo zucchero aggiunto dalla dieta dei bambini”. In senso categorico: e cioè la sua totale esclusione nella fascia d’età da zero a due anni, per impedire che sviluppino la dipendenza dagli zuccheri, fino a nove volte più potente di quella da cocaina. Fatto sta che più i cibi sono dolci e più i consumatori ne desiderano altri, ancora più dolci. Le big del Food lo sanno e si comportano di conseguenza, calpestando quel senso di responsabilità sociale che nel secolo scorso ancora rispettavano. L’appello dei cardiologi americani precisava poi che tra i 2 e i 18 anni non dovrebbero essere consumati più di sei cucchiaini di zuccheri aggiunti al giorno, ovvero proprio quei 25 grammi suggeriti dallo IARC. E, al massimo, una lattina di bibita alla settimana. Una e basta, tenendo conto che una sola lattina di bibita contiene, in media, tra i 30 e i 40 grammi di zucchero. La realtà, purtroppo, è ben altra: una ricerca europea del 2015, denominata Idefics, ci dice che i bambini italiani tra i 2 e i 9 anni mangiano 87 grammi di zuccheri aggiunti al giorno. In media! Significa che c’è chi supera l’etto e mezzo di zucchero quotidiano. Non deve quindi stupire se i bambini italiani detengono il record di obesità d’Europa. Un primato terribile, dato che il peso in eccesso non è un banale problema estetico ma già, di suo, malattia, perdipiù anticamera di una serie infinita di altre gravi patologie, non ultima il diabete. L’amaro paradosso è che i bambini occidentali sono malnutriti, nel senso di troppo e male, con l’aggravante di inaccettabili giustificazioni: “Sono così comodi”. Oppure: “A loro piacciono tanto”. Per non dimenticare i più sinceri, ma più colpevoli, che se la cavano dicendo: “Così non devo cucinare e sporcare padelle”.
IL POTERE DELLE LOBBY
È una malnutrizione creata anche dalla quotidiana esondazione di spot, poco o nulla sinceri, che piovono h24 sui bambini e sui loro genitori. Non a caso il rapporto OMS denuncia come «la grande industria alimenti le malattie croniche, ostacoli la politica sanitaria e prenda di mira le persone vulnerabili»; aggiungendo che «specifiche industrie potenti stanno guidando la cattiva salute e la mortalità prematura in Europa e in Asia Centrale». Più esplicito Hans Henri Kluge, direttore OMS per l’Europa, secondo il quale «le tattiche del settore, fuorviando i consumatori e facendo false affermazioni sui benefici dei loro prodotti, minacciano i progressi in termini di salute pubblica del secolo scorso». E qui emergono il ruolo e il potere delle lobby nell’influenzare i legislatori. Cadono per esempio le braccia nel vedere come il governo italiano, anziché offrire ai partecipanti all’ultimo G7 sani broccoli o lenticchie, abbia fatto loro omaggio di una nota crema spalmabile alla nocciola che tutto è meno che sana, essendo fatta di zucchero per il 57% e per un altro 20% di olio di palma. Ci si può almeno consolare con quanto sta avvenendo in Svizzera, dove due organizzazioni non governative, Public Eye e International Baby Food Action Network (Ibfan), hanno chiesto al governo federale di agire proprio contro la più grande multinazionale elvetica, la Nestlé, accusata di aggiungere forti dosi di zucchero nei prodotti per l’infanzia destinati al Terzo Mondo. Come dire: nuovi consumatori dipendenti dai gusti dolci per conquistare futuri mercati e ulteriori profitti. Dato che di norma va dichiarato solo il contenuto totale di zucchero – compresi fruttosio o lattosio presenti in natura – le Ong hanno fatto analizzare i prodotti sospetti in un laboratorio belga che ha individuato zuccheri “nascosti” e aggiunti. Scoprendo che se in Germania e Regno Unito gli alimenti per l’infanzia non contengono zuccheri aggiunti, in altri, come il Bangladesh, l’India, il Pakistan, il Sudafrica, l’Etiopia e la Thailandia ci sono da 1,6 a 6 grammi di zucchero a porzione. Volendo essere magnanimi potremmo citare una frase di Wendel Berry, grande romanziere-contadino americano, nonché uomo profondamente saggio: «La gente viene nutrita dall’industria alimentare, che non si interessa della salute, ed è curata dall’industria farmaceutica che non si interessa dell’alimentazione». Come dire che, se una popolazione sana “non rende”, è fuor di dubbio che i malati diventino una ghiotta fonte di profitto per chi fornisce loro i farmaci. Ma questa è un’altra storia.