Non si lavora più solo per il pane

Welfare aziendale, senso di appartenenza, coerenza con i principi personali, percorsi di formazione e di responsabilità sociale sono fattori cruciali per attrarre e fidelizzare i giovani professionisti. Soprattutto oggi, in un mercato del lavoro dove i neolaureati snobbano la libera professione il cambiamento è possibile. Ma richiede impegno, risorse e visione

di Giovanni Colombo

 

E si potrebbe anche cominciare con una citazione da Serie A. Intervistato da una testata sportiva, Mirwan Suwarso, manager indonesiano divenuto presidente del Como calcio per volere dei proprietari multimiliardari – i fratelli Hartono, una delle famiglie più ricche del mondo – ha detto: «Tutti noi vogliamo che Nico Paz possa rimanere con noi. Per sempre, se possibile…». Nico Paz è un giovane, talentuoso, calciatore spagnolo che nella squadra lariana si sta particolarmente distinguendo, attirando non solo l’affetto dei tifosi ma anche le attenzioni e l’interesse delle big del calcio nazionale ed europeo. Ora, uscendo dal campo del calcio mercato e cambiando i nomi dei protagonisti, le parole di Suwarso sono le stesse che molti titolari di studi professionali sono costretti a pronunciare, in riferimento a un giovane professionista brillante che, dopo essersi messo in luce, si guarda intorno e comincia a mandare curriculum altrove. Per ché succede? E come possono gli studi professionali evitare di perdere i propri campioni? A maggior ragione, considerando la fatica spesa nell’individuarli, le risorse investite per formarli, la riorganizzazione adottata per inserirli nello staff. Senza contare, poi, il calo di vocazioni tra i giovani neolaureati verso la libera professione.

IL PARADOSSO DI EASTERLIN

Domande che possono sembra re “vecchie”, ma che pretendono risposte nuove: per trattenere un talento non basta più puntare solo sulla proposta economica. Lo dice chiaramente Filippo Poletti, top voice di LinkedIn, esperto di management e strategia aziendale, Executive MBA presso POLIMI GSOM: «Per attrarre e fidelizzare i giovani professionisti, gli studi devono ripensare il concetto di restituzione, aggiungendo valore in altre forme, perché oggi sono altri i fattori in gioco: il welfare aziendale, il senso di appartenenza, la coerenza con i principi personali, percorsi di responsabilità sociale». Stiamo cioè assistendo alla concretizzazione del paradosso di Easterlin? «L’economista californiano affermava che all’aumentare del reddito, quindi dello stipendio aumenta la felicità, ma solo fino al raggiungimento di un certo livello.

Successivamente, tale incremento non genera ulteriore soddisfazione. E ciò dipende dal fatto che il denaro non è più l’unica misura di valore nello scambio tra tempo e competenze». Concetti che trovano conferma anche nei numeri. Almeno quelli del Talent Trends 2024, condotto da Michael Page Group su quasi 50 mila professionisti qualificati, che ha svelato importanti insights su tendenze e valori della Gen Z (cioè i nati tra il 1997 e il 2012), destinata a costituire più di un quarto della forza lavoro nei paesi OCSE nel 2025. Quando è stato chiesto loro quale sia la priorità principale al lavoro, i cosiddetti “Zoomers” hanno in dicato la salute mentale (29%) e l’equilibrio tra vita e lavoro (27%) prima della soddisfazione lavorativa (16%) e dello stipendio competitivo (13%).

LARGO AL BENESSERE

Va quindi delineandosi un peri metro vitale più ampio, entro cui il lavoro – e lo stipendio – è solo uno degli elementi, e neanche il più importante. Per dare un nome a questa nuova scala valoriale, diffusasi dopo il Covid senza distinzione generazionale, Poletti ricorre al concetto di “fullgevity”, un termine che coniuga il benessere persona le e la longevità professionale.

«La fullgevity è il desiderio di vi vere profondamente. Anche in ambito lavorativo. I professionisti, giovani e meno giovani, oggi aspirano a un’occupazione che risuoni con i propri valori, che stimoli la loro crescita, professionale e per sonale, che contribuisca al loro sviluppo soggettivo. Stiamo parlando di un nuovo paradigma lavorativo. E gli studi devono mettere a loro disposizione gli strumenti che rispondano a questo bisogno. Non basta solo prendersi cura del benessere fisico e psicologico nel breve periodo, bisogna creare spazi – momenti e ambienti – in cui il professionista possa crescere e sentirsi realizzato anche dopo anni di carriera».

IL BINOMIO VINCENTE

Altro elemento centrale per trattenere i talenti è quindi quello della formazione. Ancora Poletti: «I collaboratori vogliono avere accesso a percorsi di formazione continua e possibilità di carriera chiare, altrimenti si sentono in trappolati, come sul tapis roulant: corrono ma da fermi, senza mai arrivare da nessuna parte. Anche perché il Future of Jobs Report 2025, pubblicato a inizio gennaio dal World Economic Forum, sulla base di dati provenienti da oltre 1.000 aziende, rivela come il 39% delle competenze richieste ai lavoratori cambierà entro il 2030, e il 63% dei datori di lavoro che già lo citano come l’ostacolo principale da affrontare». Numeri che certificano come chi non si adatta rischia di perdere il contatto con le nuove generazioni di professionisti, che chiedono sempre più di crescere e realizzarsi. «Aspetto legato a questo e, secondo me, parimenti fondamentale, è quello del merito. Ossia un chiaro piano premiale, corrispondente a una definizione chiara degli obiettivi. Obiettivi Smart che offrano ricompense tangibili al merito». Questo approccio non solo aumenta la motivazione, ma crea anche un ambiente in cui i collaboratori si sentono partecipi, coinvolti in qualcosa di grande, e non solo un ingranaggio di un meccanismo più ampio e spersonalizzante.

LA FILOSOFIA DEL “VAI E FAI”

Va da sé che nell’idea di coinvolgi mento del personale nel progetto lavorativo è insito anche un concetto poco considerato e pratica to: la delega. O, come la chiama Poletti, la filosofia del “vai-fai”, cruciale per la crescita e la motivazione del team: «Non basta dire al collaboratore cosa deve fare. Gli va data la libertà di agire, affiancandolo nel processo esecutivo. È una sorta di “pedalata assistita” dove il manager, il capo ufficio, il leader dello studio, diventa il motore che ispira i collaboratori, li spinge verso i loro obiettivi, senza far perdere loro autostima e autonomia. La delega, in concreto, non deve essere vista come un abbandono, ma come processo strutturato, dove il collaboratore ha sia le risorse e il supporto per crescere, sia la responsabilità di agire autonomamente». Questo tipo di leadership, essenziale per costruire una diversa cultura aziendale, è purtroppo poco coltivata negli studi professionali ancora legati a un modello tradizionale, dove tutto ruota intorno alla figura del titolare. E invece: «Il vero leader è colui che crea altri leader, diceva Corrado Passera e io sono d’accordo. Ciò significa abbracciare un tipo di leadership che non sia autoritaria ma diffusa, che delega ma senza abbandona re: una servant leadership che sia guida e supporto».

CONDIVIDERE UN SOGNO

Se è vero che un leader è colui che ne crea altri, il percorso da fare è quello per cui il titolare dello studio non chiede solo i feedback al proprio collaboratore su quanto fatto. Ma si concentra anche sul «Feed forward. Cioè condivide re con lui un sogno, indicargli la strada da percorrere, coinvolgerlo nei progetti futuri. Questo tipo di approccio crea un senso di appartenenza più profondo e prepara i collaboratori a diventare i leader di domani». Appare quindi chiaro che i cambiamenti più significativi che uno studio può intraprendere per trattenere i talenti è abbraccia re le buone pratiche delle medie e grandi aziende, senza però perde re la propria identità: «Il cambiamento è possibile, ma richiede impegno, risorse e visione», per dirla con Poletti. La chiave è ascoltare le loro esigenze, investire nella loro crescita professionale e personale, e creare un ambiente che stimoli la loro realizzazione: «Erroneamente si può pensare che tutto quello che riguarda il benessere del di pendente sia secondario rispetto allo stipendio. Oggi non più così: è manifesta zione di lungimiranza, nonché un buon aspetto strategico, pensare di offrire cura ai propri dipendenti, perché poi quella cura i dipendenti la restituiscono allo studio». E da un ambiente in cui si pratica la cura reciproca diventa più difficile pensare di andarsene.

 

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