Addio alle toghe. La crisi e la fuga dall’albo

L’intervento di Luigi Pansini, segretario generale Anf, apparso sul Corriere del Mezzogiorno del 13 febbraio 2016 L’accesso professionale come un percorso a ostacoli, scandito da scuole, esami e anche parecchie
L’intervento di Luigi Pansini, segretario generale Anf, apparso sul Corriere del Mezzogiorno del 13 febbraio 2016

L’accesso professionale come un percorso a ostacoli, scandito da scuole, esami e anche parecchie spese; la strada per approdare in Cassazione ancora troppo lunga, difficile e persino più complicata rispetto a quanti provengono dall’estero; e poi ancora: un divario tra giovani e meno giovani che si fa sempre più profondo e rischia di tratteggiare una categoria nella categoria.

E’ l’analisi del segretario dell’Associazione nazionale forense, Luigi Pansini, a proposito della crisi degli avvocati. Che a Bari, quarta città italiana per numero di iscritti ed erede di una prestigiosa tradizione giuridica meridionale, ha toccato livelli senza precedenti che denotano non soltanto un crollo preoccupante ma anche la transizione in un’epoca in cui l’appeal della toga conta fino a un certo punto e non regge le bordate della crisi: 419 cancellazioni solo nel 2015, un crollo dei ricavi stimato al 40%, vale a dire circa il doppio della media nazionale.

 

Le divisioni

Insomma il disagio c’è, e si vede. Ma a proposito di diagnosi e cura del malessere che attanaglia la categoria, gli avvocati si dividono. «Troppo comodo parlare di costi previdenziali onerosi, parcelle non pagate e spese di giustizia», dice Pansini. Il quale punta l’indice contro il consiglio dell’Ordine: «Cosa fa e cosa ha fatto finora per gli avvocati?», si chiede il segretario nazionale dell’Anf, che in una lettera ai legali baresi si sofferma sull’inchiesta del Corriere del Mezzogiorno e non risparmia critiche all’attuale legislazione sulla giustizia e alla gestione di una fase a dir poco delicata.

Secondo Pansini «i giovani sono fortemente penalizzati» fin dai primi passi. Il riferimento è non solo alle scuole forensi, ma a tutto il percorso che dovrebbe traghettare l’aspirante toga nell’olimpo dei cassazionisti. Il punto è che secondo la legge professionale e il regolamento attuativo, gli avvocati italiani per approdare dinanzi alla Suprema Corte devono frequentare un corso; così non è invece per i cosiddetti “avvocati stabiliti”, quelli che hanno ottenuto l’abilitazione in un Paese comunitario: per loro è sufficiente dimostrare di aver esercitato la professione per dodici anni in uno Stato dell’Unione europea.

 

«Italiani discriminati»

«Gli italiani – attacca il segretario nazionale dell’Anf, che a Bari conta una sezione con segretario Nicola Bonasia – in questo modo sono sfavoriti: la disparità di trattamento è evidente visto che gli “avvocati stabiliti” possono iscriversi nella sezione speciale dei cassazionisti attraverso la dimostrazione del mero esercizio della professione, peraltro svincolato dalla dimostrazione di un numero minimo di giudizi patrocinati dinanzi alla sedi giudiziarie indicate».

 

I ricorsi

La cosa non è passata inosservata. Al punto che il sindacato di Bari e venti avvocati, difesi da Emilio Toma e Loredana Papa, hanno deciso di impugnare il regolamento che disciplina la procedura per diventare cassazionisti rivolgendosi al Tar del Lazio. «Si tratta di norme discriminatorie», insiste Pansini. Che si sofferma sull’accesso alla professione e sul tirocinio. «Stiamo cercando di far modificare la disciplina», dichiara il segretario nazionale dell’Anf riferendosi al ruolo delle scuole forensi, che dal prossimo anno saranno obbligatorie prima dell’esame. «Ma stiamo parlando – aggiunge – di un’abilitazione, non si tratta di un concorso come quello per notai e magistrati»

 

L’abilitazione

Per la verità le modalità di svolgimento delle prove sono al centro di un aspro dibattito che va avanti da diversi anni. Durante i quali è stato deciso di fissare regole più rigide e innalzare paletti in grado di garantire verdetti più selettivi. Il tutto al fine di puntellare verso l’alto il livello di preparazione e sfoltire allo stesso tempo i ranghi dell’esercito smisurato di candidati.

Nella speranza dichiarata che la toga possa finire sulle spalle di quanti sognano effettivamente di svolgere la professione e si cimentano con una dura pratica legale scandita da sacrifici e lunghi anni senza vedere un centesimo.

Pansini sottolinea che l’esame è «comunque un terno al lotto» e snocciola gli ostacoli sulla strada dell’abilitazione: «Numero programmato, numero minimo di ore, costi da sostenere, verifiche intermedie e finali», spiega ribadendo che i giovani sono costretti a fronteggiare le maggiori difficoltà. Di certo, la crisi non risparmia comunque gli avvocati più esperti. Spulciando l’elenco delle 419 cancellazioni si scopre che tra quanti hanno deciso di dire addio alla toga ci sono professionisti con decine di anni di lavoro sulle spalle: hanno chiuso studi legali che si tramandavano da generazioni, stretti tra l’aumento vertiginoso delle spese di giustizia e il crollo della liquidazione della parcelle, troppo spesso destinate a rimanere semplici pezzi di carta da utilizzare, magari, per la prossima causa: quella contro il proprio (ex) cliente.