La solitudine della pandemia: il virus triste

La rubrica Progetto Spazio Psicologico a cura di PLP Elisa Mulone Psicologa e psicoterapeuta Presidente Nazionale PLP   “Questo è proprio un virus triste” mi dice un giorno una persona lontana dal mondo della psicologia ma immersa nelle dinamiche psicoemotive che la pandemia impone. È un virus vigliacco che si nutre del calore di un
La rubrica Progetto Spazio Psicologico a cura di PLP

Elisa Mulone

Psicologa e psicoterapeuta

Presidente Nazionale PLP

 

“Questo è proprio un virus triste” mi dice un giorno una persona lontana dal mondo della psicologia ma immersa nelle dinamiche psicoemotive che la pandemia impone. È un virus vigliacco che si nutre del calore di un abbraccio, della tenerezza di un bacio. Un nemico che si insinua nella prossemica di un incontro, che approfitta del desiderio innato di vicinanza dell’essere umano, che alimenta il sospetto e la diffidenza.

Ed è proprio vero, un tema centrale di questa pandemia è la tristezza della solitudine a cui ci costringe. Isolamento, distanziamento fisico, quarantena, permanenza e morte in terapia intensiva. Diversi livelli di solitudine.

 

Se da un lato, la solitudine può essere un momento per riscoprire se stessi e la propria unicità, dall’altro ci sono condizioni di fragilità che ne risentono pesantemente e pagano un prezzo molto elevato.

Il lato più triste della solitudine a cui ci obbliga il coronavirus è quello per il quale non possiamo stare vicini alle persone amate nel momento del bisogno o addirittura quando stanno per lasciarci. Le donne partoriscono da sole, senza i loro compagni accanto o una persona di fiducia a supporto e le persone che si ammalano di Covid 19 rischiano di morire da sole nel freddo di una terapia intensiva.

Il lato più oscuro della pandemia è la morte in solitudine, terribile per chi ci lascia privo del calore dei propri cari e altrettanto terribile per chi non può accudire e dare un ultimo saluto alle persone amate.

 

Mi ha colpito molto leggere le parole di Red Canzian sulla recente scomparsa dell’amico Stefano D’Orazio:

Non si è mai preparati alla morte di un amico […] Non poterlo vedere, non sapere cosa fare. Un male terribile e bastardo che ti nega l’ultimo saluto. C’è solo una cosa più crudele della morte: morire in terapia intensiva. Sei nudo con un solo lenzuolo e un freddo terribile. Hai sete e non ti danno da bere. Poi il tempo non passa mai […] l’ho provato quando qualche anno fa mi hanno operato al cuore. Al risveglio, oltre a mia moglie e ai miei figli, ho visto al mio fianco Stefano che mi sorrideva dietro la mascherina. La sua sola presenza mi ha rassicurato. Io non ho potuto ricambiare la cortesia”.

 

Tutto quello che stiamo vivendo non verrà cancellato con un colpo di spugna né dall’arrivo di un vaccino né dalla fine della pandemia. Le cicatrici rimarranno, forse anche ferite ancora sanguinanti, per lungo tempo. Tutti dovremo riabituarci a gesti e consuetudini bloccati da mesi, molti dovranno fare i conti con la perdita di persone amate. Dovremo scardinare il muro di tristezza che questo virus ha innalzato. Possiamo iniziare sin da subito mettendo in atto azioni amorevoli, solidali, per far sì che il virus non l’abbia vinta.