Eppur si muove

La formazione continua in Italia sconta gravi ritardi rispetto ai principali Paesi europei. Solo il 37% dei lavoratori ha partecipato ad attività formative nel 2022 rispetto a una media Ue che supera il 50%. Una forza lavoro più anziana e meno qualificata insieme con una quota di investimenti più ridotta rispetto agli standard europei rallentano la corsa di un settore che, comunque, negli ultimi 15 anni è cresciuto a vista d’occhio. Grazie all’azione dei fondi interprofessionali. Dove però la competizione si gioca solo sui grandi numeri

di Giovanni Francavilla – da il Libero Professionista Reloaded #20

Almeno il 60% di tutti gli adulti dovrebbe partecipare alla formazione ogni anno». Non è un auspicio, ma uno dei “pilastri europei dei diritti sociali”, proclamati dal Parlamento, Consiglio e Commissione Ue in occasione del vertice di Göteborg del 2017 e successivamente codificato nel Piano d’azione del 2020 che indica tre obiettivi sociali da raggiungere entro il 2030: occupazione, competenze e inclusione sociale che rappresentano poi il fulcro della formazione continua nel mercato del lavoro (job related). Parte da qui il Ι Rapporto sulla formazione continua di Fondoprofessioni, realizzato dall’Osservatorio delle libere professioni di Confprofessioni e presentato il 25 gennaio 2024 a Roma presso la Sala della Protomoteca in Campidoglio, in occasione dei vent’anni di attività di Fondoprofessioni.

UNO SGUARDO ALL’EUROPA

Nel panorama europeo la formazione continua viaggia a due velocità. Rispetto agli obiettivi europei 2030, nell’ambito del job related diversi Paesi hanno già centrato il target del 60%. Partendo dai dati dell’indagine Eurostat Aes (Adult education survey), il Rapporto di Fondoprofessioni mette in fila i Paesi più virtuosi: in Olanda, Svezia, Ungheria e Slovacchia i tassi di partecipazione degli occupati alla formazione continua nel 2022 superano il 60% e numerosi altri Paesi, in particolare nel Nord Europa (Finlandia, Danimarca e Norvegia), viaggiano sopra il 50%. Nelle retrovie della classifica si collocano Croazia, Romania e Grecia dove la quota di dipendenti che ha svolto attività formative non raggiunge il 30%. L’Italia galleggia a metà strada e l’obiettivo del 60% è ancora lontano. La quota di lavoratori che nel 2022 ha partecipato a corsi di formazione si attesta infatti al 37,6%, ben lontano dai livelli, per esempio, di Francia (49,9%) e Spagna 48,5%). C’è da sottolineare, però, la netta progressione registrata negli ultimi 15 anni: nel 2007 l’Italia, con un tasso di partecipazione del 20,8%, risultava fanalino di coda nella classifica di Eurostat Aes. «Il posizionamento dell’Italia per quanto riguarda la partecipazione alle attività di formazione continua risulta piuttosto arretrato, nonostante la crescita intervenuta rispetto al primo decennio degli anni duemila», commenta Paolo Feltrin, coordinatore dell’Osservatorio libere professioni di Confprofessioni e curatore del Ι Rapporto di Fondoprofessioni. «Sono due i principali fattori che concorrono a penalizzare il ricorso alla formazione continua nel nostro Paese: da un lato, le caratteristiche delle imprese italiane, da cui discende una forza lavoro mediamente più anziana, meno qualificata e meno istruita di quella che si riscontra in altri Paesi; dall’altro lato una quota di investimenti sulle politiche di formazione continua più ridotta rispetto agli standard che si registrano mediamente in altri Stati europei».

IL NODO DEI FINANZIAMENTI

In Europa, come pure in Italia, i fondi destinati alla formazione dei lavoratori sono finanziati attraverso la contribuzione (obbligatoria o volontaria) dei datori di lavoro, che viene devoluta ai fondi interprofessionali per la formazione continua o versata all’Inps per l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione involontaria. Ma anche in questo caso il quadro europeo ci restituisce una realtà piuttosto variegata. In alcuni Paesi i contributi possono essere inferiori allo 0,1% dei salari (come in Belgio) o crescere fino al 2,5% (Regno Unito). In Italia la quota contributiva dedicata alla formazione continua rimane inchiodata allo 0,30% dell’imponibile previdenziale, ben lontana rispetto alla Francia (che oscilla tra lo 0,55% e l’1%) o all’Olanda che destina il 2% dei contributi previdenziali alla formazione continua. E anche gli strumenti messi in campo dal Governo per incentivare le attività formative (dal credito d’imposta per la formazione 4.0 al Fondo nuove competenze) non sembrano aver inciso sul tessuto produttivo italiano, in particolare sulle piccole imprese.

PICCOLO È BELLO?

Da questo punto di vista, la narrazione del “piccolo è bello”, tanto vagheggiata negli anni Ottanta, appare oggi un’illusione ottica. Sicuramente nell’ambito della formazione continua. Le dimensioni d’impresa costituiscono infatti una variabile determinante nel favorire od ostacolare l’accesso alla formazione, soprattutto in Italia, dove il numero di occupati nelle piccole imprese e, in particolare, negli studi professionali è molto contenuto. Il nostro Paese è perfettamente allineato alla media europea nell’erogazione della formazione da parte delle imprese con almeno 10 dipendenti, ma è sotto questa soglia che si concentra il 95,2% delle imprese italiane, che impiegano il 43,2% degli addetti totali. Ed è proprio qui che l’Italia zoppica e arretra nei confronti internazionali. Con una forza lavoro mediamente più anziana e con livelli di istruzione più bassi rispetto agli altri Paesi europei, la demografia occupazionale costituisce una delle criticità strutturali del nostro Paese, sottolinea il Rapporto, e le ridotte dimensioni d’impresa che caratterizzano l’Italia rappresentano forse il principale limite per l’accesso alla formazione continua. «Analizzare questa realtà significa entrare nell’area più critica per una attività di formazione continua», commenta Franco Valente, direttore di Fondoprofessioni. «È nella micro-impresa, infatti, che crollano tutte le percentuali di coinvolgimento formativo ed è qui che si giocano le sfide più significative. Tuttavia, possiamo affermare che il Fondo costituisce una positiva eccezione. Infatti, il 76% delle strutture che hanno beneficiato di almeno un corso è costituito da imprese con massimo 9 dipendenti e il 40% non ha più di 3 dipendenti. Addirittura nell’ambito della partecipazione agli Avvisi a catalogo questa ultima percentuale raggiunge il 48%».

FOCUS SULL’ITALIA

Se il confronto con i Paesi europei mostra ancora ampi margini di sviluppo, è di tutta evidenza come la formazione continua in Italia negli ultimi 15 anni abbia fatto passi da gigante, sulla spinta dei fondi interprofessionali introdotti dalla legge 388/2000 e istituiti dagli accordi sottoscritti dalle parti sociali maggiormente rappresentative sul piano nazionale, che hanno decretato il pieno ingresso della formazione e delle politiche attive del lavoro nel perimetro dl welfare contrattuale. Secondo i dati Anpal, a partire dal 2003, i fondi hanno registrato un costante trend di crescita: il numero delle aziende aderenti ai fondi è passato da 285 mila a oltre 760 mila nel 2022 e sulla stessa china si muovono anche i lavoratori saliti da 4 a 10,6 milioni.

Di conseguenza, anche i tassi di adesione indicano un lieve incremento della copertura (45,5% per le aziende e del 67,7% per la platea di dipendenti). Ma sono soprattutto le aziende di maggiori dimensioni ad aderire ai fondi interprofessionali. Un fenomeno che non accenna a diminuire nel tempo: la dimensione media delle aziende aderenti ai fondi interprofessionali è infatti pari a 13,3 dipendenti (contro gli 8,9 dipendenti che si riscontrano mediamente nell’intera platea) e appare in crescita rispetto al 2012, quando il numero si attestava mediamente attorno agli 11 dipendenti.

I dati Anpal, avverte il Rapporto, vanno presi con le pinze, perché anche qui la dimensione aziendale favorisce i big e penalizza i più piccoli. «Oltre il 70% delle organizzazioni iscritte a Fondoprofessioni rientra nell’ambito delle attività professionali, tecniche, scientifiche e sanitarie», sottolinea Valente. «La nostra offerta formativa viene quindi calibrata sugli studi professionali, un settore che nel suo complesso presenta una dimensione media di cinque dipendenti».

Fondoprofessioni, in questo ambito, fa scuola: con una quota pari al 4,7% si pone infatti al 7° posto nella classifica delle imprese aderenti, ma il suo contributo in termini di quota di dipendenti appare molto più contenuto, siamo nell’ordine dell’1,4% al 2022. «Prendiamo ad esempio i due casi estremi» suggerisce Feltrin.

«Il settore bancario-assicurativo ha una copertura pressoché totale delle grandi aziende del comparto (990 iscrizioni) che apportano oltre 240 mila dipendenti; gli studi professionali iscritti a Fondoprofessioni sono quasi 36 mila, un numero maggiore rispetto al settore bancario, ma con 141 mila dipendenti.

La conseguenza sulle entrate dei due fondi è facile da intuire: circa 39 milioni di euro contro appena 7 milioni (dati 2019, fonte Anpal), pur a fronte di uno sforzo di penetrazione nel comparto evidentemente molto maggiore da parte di Fondoprofessioni». Nelle piccole e piccolissime unità produttive (studi professionali, commercio, artigianato, etc.) le adesioni ai fondi interprofessionali sono molto più basse, anche per effetto delle asimmetrie informative legate alle dimensioni aziendali.

Secondo le stime dell’Osservatorio, nel 2019 i dipendenti iscritti ai fondi erano circa 9,5 milioni; tuttavia, se si prendono in considerazione le Unità di lavoro annue nel settore privato (al netto degli indipendenti e dei dipendenti della pubblica amministrazione) il numero sale a circa 13,6 milioni. I 4,1 milioni che mancano all’appello sono quasi tutti dipendenti di piccole, piccolissime imprese e degli studi professionali.