La guerra non ferma l’export

Il commercio estero fattura 540 miliardi di euro. Ma per continuare a spingerne la crescita sono fondamentali tre step: individuare nuove piazze commerciali; aumentare le competenze dei professionisti del settore; monitorare i costi di movimentazione delle merci. Più uno: trasformare i nostri porti in hub moderni in grado di competere con quelli esteri

di Nadia Anzani. Da il Libero Professionista Reloaded #5

 

L’export è uno dei motori dell’economia italiana e, al netto delle tensioni geopolitiche in corso e del conflitto russo-ucraino, sembra tenere duro. A dirlo sono gli ultimi dati Istat in base ai quali, nel primo trimestre 2022, le esportazioni sono cresciute del 7,7% rispetto a quello precedente, con un forte aumento delle vendite sia verso l’area Ue (+23,5%), sia verso i mercati extra Ue (+22,2%). «Oggi il commercio estero vale un terzo del nostro Pil, per un fatturato complessivo di 540 miliardi di euro», afferma Lorenzo Zurino, fondatore e ceo di The One Company, società specializzata nel commercio estero di prodotti italiani nel mondo, e presidente del Forum Italiano dell’Export. «Ora resta da vedere come andranno i prossimi due trimestri, l’andamento dei quali è legato a doppio filo non solo al conflitto ucraino, che ha di fatto congelato le esportazioni Made in Italy sulla piazza di Kiev e di Mosca, ma anche all’andamento della pandemia in Cina, visto che al momento ci sono ancora importanti città in lockdown. Una cosa però è certa: il commercio estero resta indubbiamente una voce strategica della nostra economia e in quanto tale merita attenzione e competenze da parte del governo».

La guerra in Ucraina quanto sta pesando sull’export italiano?

Per quanto riguarda la Federazione russa, i dati a nostra disposizione dicono che le perdite ammontano a 7,7 miliardi di euro. A questi si aggiungono poi le perdite sul mercato ucraino, sul quale l’Italia esportava merci per un valore di oltre 3 miliardi di euro. Ciò significa che complessivamente stiamo perdendo qualcosa come 11 miliardi di euro di prodotto italiano.

 

Quali sono i comparti più in sofferenza e quali, invece, quelli che resistono maggiormente?

A soffrire di più sono la moda e il lusso che in Russia avevano uno sbocco importante. Basti dire che nei primi 11 mesi del 2021 l’export di moda made in Italy verso Mosca aveva segnato una crescita del 24%, raggiungendo gli 1,3 miliardi di euro di fatturato. Numeri che hanno alimentato buone aspettative per il 2022. Aspettative poi naufragate. Una buona tenuta continuano invece ad avere l’agroalimentare (che rappresenta quasi il 10% del fatturato totale dell’export) e la meccatronica, da sempre uno dei settori in cui l’Italia eccelle. Anche se un prolungamento del conflitto ucraino potrebbe mettere a rischio anche questi due comparti.

 

Cosa andrebbe fatto affinché l’export continui a essere il motore trainante dell’economia italiana? Basterebbe più competenza. Il Made in Italy è già un motore per l’economia italiana. Ma possiamo aggredire più e meglio i mercati internazionali. In questa direzione è fondamentale individuare altre piazze dove far arrivare i nostri prodotti, le nostre eccellenze. Un’attività di scouting che potrebbe essere guidata con convinzione dall’Ice, l’Istituto Italiano per il Commercio Estero, l’organismo attraverso cui il Governo favorisce il consolidamento e lo sviluppo economico-commerciale delle nostre imprese sui mercati esteri. Una struttura nata nel 1926, che con le sue 64 sedi sparse in tutto il mondo dovrebbe fare da antenna, guidando con attenzione e competenza il nostro sviluppo commerciale estero, individuando nuovi mercati non ancora presidiati dalle nostre aziende come Vietnam, Malesia, Nuova Zelanda, Continente australiano e Africa australe. Mai come in questo momento l’Ice potrebbe dare un aiuto concreto alle migliaia di aziende che avevano nel mercato russo e in quello ucraino il loro principale sbocco.

E non lo sta facendo?

Diciamo che quelle sono aree geografiche in cui è necessario essere leoni e non agnelli per farsi spazio tra concorrenti internazionali e agguerriti. Certo un nuovo mercato di sbocco per le merci italiane non si apre dall’oggi al domani, ci vuole tempo, capacità di tessere relazioni, diplomazia e una buona vision. Ma è importante iniziare a giocare la partita. Ed è importante farlo ora.

 

Concorrenza che mi par di capire c’è anche in altri comparti. Lei, per esempio, ha evidenziato più volte l’importanza di monitorare da vicino i costi della movimentazione container per debellare il rischio speculazione sui prodotti italiani…

Indubbiamente. Un processo di esportazione si basa su due colonne portanti: interconnessione doganale, il che significa un’agenzia doganale aperta ad altre agenzie doganali e una capacità di strutturare una logistica efficace attraverso autorità portuali interconnesse con altre autorità portuali. Noi oggi viviamo una tempesta perfetta: costi delle materie prime alle stelle, prezzo dell’energia arrivato a livelli inimmaginabili, così come quello della logistica. Tutto questo sta portando i prodotti italiani verso una perdita di quote di mercato nell’export.

 

Ma anche una ristrutturazione dei porti italiani più strategici potrebbe avere il suo peso nel rilancio del nostro Export?

Certamente. Basti dire che noi abbiamo porti che non consentono l’ingresso delle navi Super Panamax, le grandi navi porta container. Per diventare grandi hub di smistamento in grado di competere con quelli europei, le nostre infrastrutture portuali avrebbero indubbiamente bisogno di massicci interventi di ristrutturazione. Così oggi siamo al paradosso che un container carico di merce italiana, per arrivare negli States, deve transitare prima da Rotterdam, disegnando rotte improbabili: Napoli-Rotterdam e poi Rotterdam-New York, con un conseguente aggravio di costi.

 

E la formazione delle figure apicali quanto pesa sul rilancio dell’export nazionale?  

La competenza è figlia della formazione. Se vogliamo che il prodotto italiano sia apprezzato sempre di più da mercati nuovi e da quelli maturi è fondamentale formare adeguatamente il personale e soprattutto riqualificare le competenze.