Lo spettro del debito, un macigno sugli investimenti

Risorse del Pnrr a rischio se l’Italia non rispetterà la clausola del 3% del rapporto deficit-Pil. Così la politica fiscale si adegua al Fiscal Compact nonostante le stime di crescita del Governo sottovalutino gli effetti crisi. Se poi si aggiungono i dati sulla capacità di spesa dei fondi europei il quadro che abbiamo di fronte è poco rassicurante

di Gustavo Piga, professore ordinario di Economia politica presso l’Università degli studi di Roma Tor Vergata.

da il Libero Professionista Reloaded #4

Il Pnrr non è slegato dal Fiscal Compact ma dipende da esso e se l’Italia non rispetterà la convergenza verso la clausola dal 3% del rapporto deficit-Pil, andrà incontro alla sospensione delle risorse. L’art. 10 del regolamento Ue 2021/241 del Parlamento europeo e del Consiglio («Misure per collegare il dispositivo a una sana governance economica», del 12 febbraio 2021, che istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza), prevede infatti che «la Commissione può presentare al Consiglio una proposta di sospensione totale o parziale degli impegni o dei pagamenti […] se il Consiglio adotta due raccomandazioni successive nella stessa procedura per squilibri eccessivi […] motivate dal fatto che uno Stato membro ha presentato un piano d’azione correttivo insufficiente».

La politica fiscale italiana si sta di conseguenza adeguando a rispettare il Fiscal Compact, nonostante gli anni della crisi economica causata dalla pandemia prima e dalla guerra ora richiedano ben altro supporto alla domanda delle imprese nel Paese. Il governo Conte, nel suo ultimo Documento di economia e finanza (Def) – il primo che comprendeva il sostegno del Pnrr – promise un impressionante calo del deficit-Pil (in tempi di pieno Covid!) dal 10,8% al 3% (quest’ultimo valore ovviamente simbolico e legato alle priorità austere europee) in tre anni, più di 150 miliardi di euro in meno di spese e di tassazione in più, metà di queste discrezionali e cioè non dovute alla (sperabile) ripresa. Con Mario Draghi la musica non è cambiata, anzi è diventata forse più austera: nel suo Def 2021 il rapporto deficit-Pil cala in tre anni dall’11,8% al 3,4%.

La guerra non sposta gli obiettivi del Governo

Significativamente la nuova crisi, causata anche dalla guerra in Ucraina, non ha alterato i piani del Governo: infatti il nuovo Def 2022, presentato dal ministro dell’Economia, Daniele Franco, lo scorso aprile, prevede un rapporto deficit-Pil ancorato a quello dichiarato (5,6%) nella Nadef autunnale, come se nulla fosse nel frattempo drammaticamente cambiato da allora ad oggi. A guardare con attenzione, si prevede che il saldo primario (il deficit al netto delle spese per interessi) sia ulteriormente ridotto, dal 2,7 al 2,1% di Pil. E tutto ciò nonostante il dimezzamento della crescita economica per il 2022, che dal 4,7% previsto pochi mesi prima, è stimata dal nuovo Def al comunque, a detta di tutti, ottimistico 3,1%.

Anche nel varare, lo scorso 2 maggio, il nuovo DL per gli aiuti all’economia, il Governo ha fatto di tutto pur di non procedere con uno scostamento di bilancio e non far preoccupare Bruxelles. Per completare il quadro, è stato anche deciso il bis nella tassazione degli extra-profitti delle imprese energetiche. Mancano all’appello tutti i fondi che avremmo potuto dedicare ad investimenti e che vengono quindi rimandati ad un improbabile futuro virtuoso, quando, con il placet di Bruxelles, potremo finalmente spendere nella nostra crescita per le future generazioni.

La falsa pista dell’inflazione

Ossessionata dal debito, l’Europa fa fronte all’attuale crisi energetica concentrandosi erroneamente sulla lotta all’inflazione e non alla disoccupazione. Negli anni ‘70 i governi – in mezzo ad una crisi analoga dovuta a rincari energetici – dedicarono la politica monetaria e fiscale a sostegno dell’obiettivo primario dell’occupazione, anche a costo di una maggiore inflazione. E ciò avvenne con grande successo: la disoccupazione italiana durante lo choc petrolifero non aumentò particolarmente, non perché la crisi energetica non ebbe un impatto, ma perché si compensò lo choc con politiche monetarie e fiscali espansive della Banca d’Italia e del governo. L’inflazione si cominciò a combattere solo negli anni ’80 quando, anche per l’ampio potere dei sindacati, aveva raggiunto il 20%.

Oggi, con un’inflazione al 7%, l’Ue ci chiede di combattere l’inflazione piuttosto che la disoccupazione e si prepara ad un probabile aumento dei tassi di interesse entro luglio, seguendo analoghe decisioni della Fed e della Bank of England. In altre parole, la Banca centrale europea commette i due errori più gravi che una banca centrale possa fare quando l’inflazione, come in questo caso, è causata da un aumento di costi che colpiscono il sistema produttivo. Si agisce dunque prematuramente sui tassi di interesse, senza riuscire probabilmente ad evitare l’inflazione, ma aumentando invece la probabilità di una recessione. Così facendo, la banca centrale asfalta la strada a quella particolare congiuntura di mali economici che si chiama in gergo tecnico stagflazione.

Si stringono i cordoni della borsa

La fine del sostegno della Banca centrale europea avrà conseguenze negative sull’attuazione del Pnrr e più in generale sugli investimenti pubblici. Se a ciò si aggiungono i dati sulla capacità di spesa dei fondi europei del nostro Paese, il quadro è ben poco positivo. Il fatto che il Governo, al primo stormire di fronde dovuto all’aumento della spesa per interessi, reagisca stringendo ulteriormente i cordoni della borsa indica che di fronte a noi vi è un circolo vizioso in cui politica monetaria e politica fiscale interagiscono facendosi mutualmente più restrittivi, il contrario di quel che necessitiamo. Da questo punto di vista è positivo che in un quadro non certo incoraggiante si inseriscano gli investimenti del Pnrr. Rigidamente programmati – e in parte anche avviati precedentemente alla crisi – questi investimenti potrebbero almeno tamponare la scarsità di ulteriore spesa pubblica negli anni a venire, cruciali per la ripresa economica.

Pnrr, la spesa effettiva al palo

Eppure, anche gli investimenti del Pnrr non sono completamente al sicuro: un conto è programmare la spesa, un altro è spendere davvero le risorse. OReP – Osservatorio sul Recovery Plan, ha monitorato la spesa prevista e quella effettuata per gli investimenti del Pnrr nel biennio 2020-2021: a fine febbraio 2022 sussisteva uno scarto di 10 miliardi di euro tra i dati relativi alla spesa effettiva (5,1 miliardi) – secondo quanto dichiarato dal ministro Franco nel corso di un’audizione parlamentare del 23 febbraio – e la spesa prevista (15,425 miliardi). Il tasso di assorbimento dei fondi del Pnrr ammonta quindi ad un terzo di quanto pianificato. La spesa effettiva delle risorse europee è un altro tassello da aggiungere al complicato scenario che si profila per l’Italia nei prossimi anni. Tuttavia, se le nuove sfide esposte precedentemente sono causate da variabili esogene, quello della spesa è un gradino su cui il Paese inciampa regolarmente e per cause del tutto endogene: si pensi solo alla programmazione 2014-20 dei Fondi per lo sviluppo e la coesione (FSC) che registra un tasso di pagamenti fermo a poco più del 9% del totale.

Una spending review seria

È evidente che il circolo virtuoso sarebbe a portata di mano: impegnarsi in una seria spending review che metta al centro le competenze delle stazioni appaltanti, riorganizzate attorno ad una governance non rigidamente centralizzata che distrugge opportunità per le Pmi ma nemmeno frammentata come quella attuale. Una soluzione potrebbe essere ad esempio fornita da 100 stazioni appaltanti a livello provinciale su cui investire per ottenere risparmi e tempi di realizzazione dei progetti consoni alle esigenze del Paese. Al contempo ciò indurrebbe l’Europa a valutarci finalmente “bene” e ad interrompere quella austerità dovuta ad un aspetto atavico sulla nostra incapacità di spesa. Ma bisognerebbe avere una leadership – italiana ed europea – che creda che sia possibile un’altra via oltre a quella finora perseguita.