Il lavoro adesso lo scelgo io

Il fenomeno delle dimissioni volontarie è destinato a restare sul mercato ancora per un po’, spinto dall’insoddisfazione dei lavoratori italiani, che oggi puntano a un’occupazione che dia loro più flessibilità, autonomia, formazione. E che riconosca il loro valore

di Nadia Anzani, da il Libero Professionista Reloaded #4 – 2022

Gli anglofoni lo chiamano Great resignation; i puristi della lingua italiana, dimissioni volontarie. Ma al di là delle parole usate per definirlo, si tratta di un fenomeno destinato a restare ancora a lungo sul mercato, alimentato dalla molla dell’insoddisfazione dei lavoratori. E l’Italia non fa eccezione. Lo conferma anche il Censis in base al quale l’82,3% delle persone con una occupazione, si dice insoddisfatto del proprio impiego e ritiene di meritare di più. Le cause? Livelli retributivi inadeguati, stress accumulato con il lavoro da remoto, perenne stato di urgenza, clima aziendale tossico, scarsi servizi di welfare aziendale in grado di rispondere ai bisogni sociali quali la non autosufficienza di un familiare, la previdenza o l’istruzione dei figli. Risultato? Nell’ultimo anno negli Usa il tasso di turn over volontario nelle organizzazioni è stato del 20% più alto rispetto al periodo pre-pandemia e in Italia, sebbene decisamene più contenuto, il fenomeno ha raggiunto numeri interessanti. Stando a quanto evidenziato dall’analisi delle note trimestrali sulle comunicazioni obbligatorie pubblicate dal ministero del Lavoro, nel 4° trimestre 2021, infatti, il tasso di dimissioni è stato di oltre il 3%, con un aumento del numero di lavoratori dimissionari che ha superato il mezzo milione di persone. Numeri mai visti nell’ultimo decennio. E siamo solo agli inizi se è vero che oggi in Italia il 72% delle grandi aziende e multinazionali coinvolte nel Global Talent Trends, prevede un ricambio di personale nel prossimo periodo. Non solo: secondo una recente ricerca della società di consulenza Gartner, un’azienda che di solito aveva un turn over di circa un quinto dei suoi dipendenti prima della pandemia, ora potrebbe perderne quasi un quarto ogni anno. E così tra le domande più frequenti rivolte a Google continua a esserci: “Come cambiare lavoro e vita?”. La ricerca di cambiamento include anche quesiti come “Qual è la migliore carriera da iniziare più tardi nella vita?” oppure “Come posso cambiare lavoro in tarda età?”.

Da un’occupazione all’altra

Sia chiaro, le persone non si dimettono per dedicarsi al tempo libero o ai loro interessi personali, insomma, non rinunciano al lavoro, ma semplicemente passano da un’occupazione all’altra più frequentemente rispetto a prima. Il punto di svolta è stata indubbiamente la pandemia e i suoi lockdown che hanno accelerato e potenziato processi già in corso. Durante gli ultimi due anni tutti noi abbiamo capito che è possibile lavorare in modo diverso, meglio e senza precludere la produttività, anzi semmai l’abbiamo migliorata tanto che, per il report The future of work: from remote to hybrid, redatto da Capgemini Research Institute, il 63% delle aziende italiane ha registrato un forte aumento della produttività grazie al lavoro da remoto.

«Siamo diventati padroni del tempo e del lavoro», precisa Alessandra Giordano, Employabiity director di Intoo, società di GiGroup specializzata in consulenza di carriera. «Abbiamo imparato che il lavoro non è solo fatica e che possiamo gestirlo all’interno di molte altre esigenze, responsabilizzandoci maggiormente e dandoci più coscienza delle nostre competenze e delle nostre abilità».  Una consapevolezza che ora ci spinge a cercare il lavoro che meglio è in grado di soddisfare i nostri bisogni e che più si avvicina ai nostri valori.

Turn over spinto dall’offerta

A sostenere la possibilità di scelta c’è la maggior dinamicità del mercato del lavoro, come conferma anche un’analisi di Francesco Armillei, assistente di ricerca presso il Suntory and Toyota International Centres for Economics and Related Disciplines (STICERD) della London School of Economics e socio del think-tank Tortuga, nella quale si evidenzia come, dalla fine del 2020, il tasso dei dimessi che trova un lavoro entro una settimana ha cominciato a salire in coincidenza con la seconda ondata di Covid-19, raggiungendo un picco del 40%, per restare poi sopra la media degli anni scorsi per tutto il 2021, in concomitanza con il rimbalzo del Pil. Il motivo di questa boccata di ossigeno va ricercato nel rapporto tra offerte di lavoro e tasso di disoccupazione in Europa che, rispetto al 2019 è aumentato del 73%, spostando la barra del potere decisionale dalle aziende ai candidati. Per rendersene conto basta dare un’occhiata ai siti che offrono lavoro online. Se si analizza Indeed, per esempio, è evidente che a fronte di un calo del 40% in piena pandemia, a partire da maggio 2021 le offerte di lavoro hanno registrato una crescita costante, con un picco di incremento del 58% a marzo 2022. Per ogni 100 opportunità lavorative esistenti pre-pandemia, oggi ne esistono 158.

Il mercato non ha più confini

«A tutto questo si aggiunga poi il fatto che la tecnologia ha abbattuto i confini territoriali e allargato le possibilità di trovare lavoro anche all’estero e spesso senza alcun trasferimento. Il numero di persone che dall’Italia lavora per multinazionali straniere, infatti, è in costante crescita», interviene Tomaso Mainini, Senior Managing Director Italia & Turchia di Page Group.  Il digitale ha insomma scongelato lo spazio e il tempo del lavoro, ma ha anche iniziato a mettere in discussione il binomio che ha caratterizzato finora il lavoro: dipendente/autonomo come sottolinea Mainini: «In fase di colloquio i candidati oggi chiedono un lavoro che dia loro flessibilità e non solo di orario.  Puntano ad avere più autonomia, opportunità di crescita professionale nel tempo, di imparare sempre qualcosa di nuovo».  E questo succede sia per i giovani laureati sia per chi ha già alle spalle una seniority di 20 anni all’interno di aziende. «Le persone vogliono essere valutate sulle performance, sui risultati ottenuti non più sul tempo passato in ufficio e portare avanti decisioni prese da loro», aggiunge Mainini. I settori dove queste esigenze sono sentite più marcatamente sono quelli dove la digitalizzazione è più forte, dove il rinnovamento è in corso da più anni, «come il comparto Hi-tech e quello delle Telecomunicazioni. E si tratta di persone con 5- 10 anni di esperienza alle spalle che sanno davvero quello che vogliono e che per raggiungere i loro obiettivi professionali sono disposti a reinventarsi e a mettersi in gioco anche in ruoli differenti rispetto a quelli ricoperti fino a ora».

A scegliere non sono più solo le aziende

Ma le organizzazioni questo lo hanno capito? Non tutte. Da qui l’aumento appunto dei flussi di uscita. «Le imprese non hanno ancora messo bene a fuoco che oggi il mercato del lavoro non è più soltanto il luogo dove gli imprenditori si scelgono i collaboratori, ma anche quello in cui le persone che vivono del proprio lavoro si scelgono l’impresa più capace di valorizzare le loro capacità», ha scritto nel suo libro L’intelligenza del lavoro Pietro Ichino, giuslavorista e accademico. E Giordano aggiunge: «Molte aziende non stanno capitalizzando questo forte cambiamento e continuano a parlare di ritorno alla normalità: due parole che cozzano con l’evoluzione della persona e del mercato. Tornare indietro non si può. Quello che bisogna fare, invece, è gestire il cambiamento in corso sia con nuove modalità di lavoro come quello ibrido, sia cercando di creare condizioni ingaggianti per i propri dipendenti. Questo è possibile farlo innanzitutto mettendosi in ascolto delle loro esigenze, bisogni e aspettative».  Non è possibile, infatti, tamponare il f lusso di uscita dei lavoratori dalle nostre aziende senza sapere i motivi che li hanno spinti a prendere questa decisione. «La maggior parte delle imprese, per esempio, non fa exit interview che invece sono la base di partenza per poter mettere in campo leve di ingaggio efficaci sia per attrarre nuovi talenti, sia per trattenere quelli rimasti. Senza dimenticare che le esigenze dei dipendenti cambiano in base alla loro età, le aziende devono cominciare a parlare di Long Life Employability», conclude Giordano.