Intelligenza artificiale, la formazione come antidoto alla crisi occupazionale

Senza un cambio di passo in materia di formazione continua la grande trasformazione del lavoro indotta dalla quarta rivoluzione industriale non comporterà alcuna evoluzione sociale e del lavoro, ma solo tecnologica ed economica. Sono pronti gli studi professionali a compiere questo salto culturale?

di Emmanuele Massagli – da Il Libero Professionista Reloaded #21

La formazione degli adulti è una sfida seria, non compresa tanto dal legislatore quanto, paradossalmente, dalle stesse parti sociali che oggi ne sono tra i principali protagonisti. Non è perciò banale o retorico ricordare che senza un cambio di passo in materia di formazione continua la grande trasformazione del lavoro indotta dalla quarta rivoluzione industriale (quella contraddistinta dall’Internet of Things, IoT, e dalla accessibilità dell’Artificial Intelligence, AI) non comporterà alcuna evoluzione sociale e del lavoro, ma solo tecnologica ed economica. Avranno quindi ragione i tanti apocalittici che prevedono (come accaduto invero durante ogni rivoluzione industriale precedente) la graduale sostituzione dell’uomo da parte delle macchine?

Al di là delle paure diffuse, ad oggi non esiste alcuna intelligenza artificiale in grado di replicare (o migliorare) la varietà di attività che può svolgere una persona; esistono però sistemi di automazione e informatici che sono in grado di svolgere attività precise e limitate in modo più efficiente di qualsiasi persona. Non si tratta più, come in passato, di compiti operativi (i filatori della prima rivoluzione industriale, gli operai non specializzati della seconda o gli addetti al data entry della terza), ma, per la prima volta nella storia dell’umanità, le macchine possono svolgere anche mansioni creative, professioni intellettuali, compiti organizzativi.

Tre obiettivi

Le sfide conseguenti sono tutt’altro che semplici da vincere, ma relativamente semplici da individuare: orientare i lavoratori in carne ossa verso quelle mansioni caratterizzate da tratti di personalità (competenze, soprattutto di natura non cognitiva) che l’intelligenza artificiale non possiede, lasciando alle macchine i compiti a minore valore aggiunto; accompagnare questa transizione facendo prevalere la sostenibilità sociale del cambiamento a quella economica, ossia garantire che nessuno perda lavoro e reddito mediante la riscoperta della necessità della formazione anche da adulti, politiche del lavoro profilate e sussidi di accompagnamento ai soggetti più vulnerabili; considerare anche la dimensione etica quale ingrediente fondamentale dell’evoluzione dell’intelligenza artificiale, accanto agli aspetti di natura tecnico/informatica, a quelli di regolazione pubblica (privacy, copyright etc.) e a quelli di costo economico.

L’ambizione dell’Ue

In questa ambito è opportuno concentrarsi sul secondo dei nodi che le istituzioni e gli attori del mercato del lavoro sono chiamati a sciogliere, quello relativo alla formazione e riqualificazione delle persone che già lavorano. L’urgenza della tematica è comprovata anche dalla crescente attenzione dedicata dall’Unione europea, che ha triplicato l’obiettivo della percentuale di adulti che dovrebbero essere coinvolti ogni anno in almeno un momento formativo di natura formale e non formale dal 20% fissato per il 2020 al 60% immaginato per il 2030.

Il ritardo italiano

L’Italia è ancora lontana da questo traguardo: ad oggi (2022) circa il 37,6% (fonte Eurostat) degli occupati (non quindi di tutti gli adulti) frequenta un corso di formazione non formale job related. Senza ricomprendere nella statistica le modalità di formazione “in affiancamento” (adottata nel 23,8% dei momenti classificati come formativi) e le modalità “diverse” quali seminari, giornate di studio e confronti con testimoni esterni (13,8%), quindi considerano solo i corsi esterni e quelli organizzati in autonomia, soltanto il 22,4% delle imprese ha indicato ai propri dipendenti almeno una proposta di miglioramento delle competenze (fonte Sistema Informativo Excelsior Unioncamere riferito all’anno 2021). Il trend è positivo: in quindici anni i lavoratori che hanno avuto la possibilità di formarsi è salito del 16%, ma gli obiettivi europei difficilmente saranno raggiunti entro il 2030.

Chi paga la formazione

Solitamente, nella inevitabile ricerca dei “colpevoli”, questi risultati vengono giustificati sotto il profilo dello scarso impegno dello Stato nella diffusione e (soprattutto) nel finanziamento del sistema di educazione permanente. Non è una osservazione peregrina: la larga parte della formazione degli adulti è pagata direttamente dalle imprese o resa possibile grazie alle risorse gestite dalla bilateralità settoriale, in particolare dai Fondi interprofessionali. Questi sono finanziati, come noto, con la destinazione obbligatoria dello 0,30% dell’imponibile previdenziale dovuto in ogni rapporto di lavoro. Un sistema che esiste anche altrove, seppure con percentuali di approvvigionamento più elevate: oltre lo 0,60% in Francia, lo 0,70% in Spagna, addirittura il 2% in Olanda. Non vi sono risorse direttamente destinate dallo Stato, se non per iniziative episodiche, seppur importanti (il riferimento è, tra gli altri, al credito d’imposta per la formazione 4.0 approvato nel 2018 e al Fondo Nuove Competenze ideato nel 2020 come originale politica di incrocio tra logica “attiva” e logica “passiva” e connesso alla stipulazione di contratti volti alla formazione e riqualificazione del personale).

Più competenze per l’occupabilità

Se questo è il fronte delle responsabilità istituzionali, imprese e parti sociali non possono nascondere anche le mancanze dirette. Tanto tra gli imprenditori quanto tra i lavoratori permane una evidente difficoltà pratica e culturale nell’intendere la formazione delle persone già occupate in impresa come fattore di competitività. Non si sta scrivendo del mero addestramento, necessario per l’adempimento delle attività quotidiane (l’esercitazione su un nuovo software, l’affiancamento per imparare ad utilizzare un macchinario più evoluto, la presentazione dei futuri prodotti etc.), bensì di una vera e propria formazione volta a incrementare anche l’occupabilità di lungo periodo della persona, esplicitamente impostata per fortificarne le competenze trasversali di natura personale e le competenze tecniche, oltre che allenare le abilità. Il vecchio ritornello che una operazione di questo genere comporterebbe troppi rischi per il datore di lavoro perché significherebbe investire risorse su una persona che proprio grazie a quell’investimento più facilmente potrà “rivendersi” altrove non è più intonato: in questa stagione di trasformazioni tecnologiche e di crisi dell’offerta di lavoro la competizione tra le imprese non si gioca soltanto sul mercato, ma anche nell’attrazione del personale più qualificato e con maggiore potenziale, ancor più nei settori ad alto tasso di istruzione come quello degli studi professionali. Il “brevetto” con cui si compete nel mercato dell’offerta di lavoro è la costruzione di percorsi di carriera praticabili e sfidanti, capaci di fare incontrare l’interesse (anche economico) dell’impresa con quello del lavoratore. Perché questo si realizzi tra gli ingredienti indispensabili c’è certamente la formazione, accanto ai servizi di welfare aziendale, alla flessibilità organizzativa per un migliore bilanciamento tra tempi di vita privata e tempi di lavoro e a un uso “intelligente” della tecnologia smart. Questo esercizio di ripensamento delle aziende è già molto visibile e raccontato nella manifattura, ma le condizioni di contesto sono le medesime anche nei servizi e nel quaternariato, per quanto possano diversificarsi le soluzioni tecniche.