Scappo dalla campagna e torno in città

Negli ultimi settant’anni l’andamento della popolazione si è incrociato con i fenomeni di urbanizzazione e de-urbanizzazione delle grandi città. A partire dal 2001 si assiste a un processo di ri-urbanizzazione trainato dallo sviluppo del terziario avanzato e, più recentemente, dall’economia delle reti. Due fattori che mettono al centro le alte professionalità. Un’occasione di crescita per il mondo delle professioni

di Paolo Feltrin – da Il Libero Professionista Reloaded #20

 

Nel trentennio 1951-81 la popolazione in Italia raggiunge quasi i 57 milioni di abitanti rispetto ai 47 milioni del secondo dopoguerra. Nei trent’anni successivi la popolazione cresce poco, raggiunge il massimo storico nel 2011 (quasi 60 milioni di abitanti), per poi cominciare a calare anno dopo anno.

Se si prendono gli andamenti della popolazione nei capoluoghi di provincia come indicatore delle dinamiche urbane e di quelle periferiche si possono individuare tre fasi, a seconda dell’ascesa o del declino della popolazione nei capoluoghi di provincia rispetto al resto dei loro territori provinciali:

1) dal 1951 al 1981 si osserva un intenso processo di urbanizzazione;

2) dal 1981 al 2001 si assiste alla crisi delle città, contrassegnata da significative dinamiche di de-urbanizzazione;

3) dal 2001 al 2021 si notano significativi, per quanto limitati, segnali di ri-urbanizzazione.

Nel periodo tra il 1981 e il 2001 la popolazione si mantiene sostanzialmente stabile, ma con uno spostamento delle residenze all’esterno dei comuni capoluogo di provincia. Si saldano in questo movimento verso la periferia almeno tre dinamiche:

  • il raggiungimento della maggiore età della generazione del baby boom, la quale si sposta dai capoluoghi verso le cinture urbane e nella provincia sotto la spinta di migliori condizioni di offerta abitativa;
  • la domanda di lavoro industriale che trova conveniente costruire nuovi stabilimenti a basso costo nelle aree industriali cresciute come funghi nei comuni rurali di mezza Italia;
  • la crescita dei servizi pubblici e privati (scuole, ambulatori, supermercati, etc.) anche nelle aree periferiche. La popolazione dei capoluoghi di provincia si contrae dai 19.400.000 del 1981 ai 17.300 mila del 2001, a fronte di una popolazione complessiva in lieve crescita. Il periodo coincide con la fase di sviluppo economico cosiddetto post-fordista, avviatasi a partire dalla seconda metà degli anni Settanta.

 

Effetto migrazione

Nel primo decennio del nuovo millennio si registra una fase di crescita della popolazione complessiva: la spinta, alimentata dai ben noti processi migratori dall’estero, con una conseguente crescita di popolazione sia nei capoluoghi che nel resto delle province. Si osserva dunque una prima inversione di tendenza, ovvero un saldo positivo nella popolazione residente dei capoluoghi, fatto questo che non si registrava dagli anni ‘70. Nel secondo decennio si conferma il cambio di fase, con un aumento del peso relativo dei capoluoghi sul totale della popolazione residente provinciale. Quanto osservato a livello nazionale costituisce il risultato della composizione di fenomeni di uguale segno, seppur con diverse intensità, nelle macro aree del paese.

Sono numerosi i fenomeni intercorsi nel tempo che possono essere analizzati in correlazione con le fasi urbanizzazione, de-urbanizzazione e di nuova urbanizzazione. Rispetto ad altre nazioni (Stati Uniti, Inghilterra, Francia in primis), in Italia il fenomeno della ri-urbanizzazione risulta ritardato, in modo più evidente solo a partire dal 2010; inoltre è più lento, spesso più in negativo che in positivo (si cala meno nelle città rispetto al resto della provincia). Specie al Nord e al Centro, le città che crescono di più hanno una maggiore presenza di terziario avanzato, di grandi poli universitari, di centri di ricerca e di istituti finanziari. Come è stato osservato da più parti, la terziarizzazione è stato il motore della crescita economica degli ultimi trent’anni nei paesi sviluppati. Essa è il principale responsabile della crescita della produttività e, allo stesso tempo, del nuovo ruolo di leadership assunto dalle (grandi) città un po’ in tutto il mondo. L’Italia, come già in altre occasioni in passato, è giunta in ritardo e in modo incerto a questo appuntamento.

 

Alte professionalità e sviluppo delle città

Proviamo a prendere sul serio questa prospettiva. Dopo vent’anni (1980-1990) di crescita sostenuta del Pil pro-capite, quando i suoi valori erano sempre superiori alla Francia e simili alla Germania, dopo un quindicennio (1990-2004) di aumenti molto più rallentati ma ancora in linea con quelli degli altri Paesi, a partire dal 2005 si assiste ad un vero e proprio stallo della dinamica del Pil italiano, il quale non tiene più il passo non solo della Germania e della Francia, ma anche della media europea. Pur partendo da livelli simili a fine anni Ottanta, nel 2021 il Pil pro capite italiano è stato pari a 38.441 euro, contro i 42.112 euro della Francia e i 49.490 euro della Germania. Perché? A parte le polemiche sul ruolo dell’introduzione dell’Euro, quattro sono i principali imputati sui quali si concentrano le possibili spiegazioni:

  1. a) la bassa dinamica della produttività del lavoro in economie fortemente terziarizzate, con oramai meno del 30% degli occupati nell’industria e in agricoltura;
  2. b) il mancato o ritardato aggancio alla rivoluzione delle tecnologie informatico-comunicative (Ict), che sono state il motore della crescita della produttività nelle principali economie avanzate;
  3. c) le specializzazioni produttive tradizionali, basate su alta intensità del lavoro e ridotte dimensioni;
  4. d) il persistente sottosviluppo del Sud.

 

Eccesso di fiducia

Queste quattro possibili spiegazioni rinviano tutte all’eccesso di fiducia che negli anni Ottanta si era diffusa nel nostro Paese intorno all’idea di aver scoperto un nuovo e più efficiente ‘modo di produzione industriale’, a volte definito in modo un po’ pomposo con il termine  ‘produzione flessibile’, riprendendo il titolo di un libro molto di moda in quegli anni, scritto da due studiosi statunitensi, Michael  Piore e Charles Sabel, e dedicato allo sviluppo de centro-nord italiano negli anni settanta e ottanta. La miscela del ‘nuovo modo di produzione italian style’ era composta da piccole imprese manifatturiere, distretti industriali a base territoriale, settori produttivi direttamente collegati ai consumi di massa (casa, moda, elettrodomestici, cibo, trasporti, etc.).

Vista con gli occhi di oggi si trattava di un’illusione, proprio come quando si immagina di scoprire l’alba di un mondo nuovo mentre, con il senno del poi, si era testimoni inconsapevoli del tramonto del vecchio mondo. In questa parentesi, tra declino del fordismo e ascesa della rivoluzione dell’Ict, l’Italia in effetti ha potuto godere di un vantaggio competitivo legato alle sue specifiche caratteristiche territoriali e produttive. Tuttavia, finito il lungo intermezzo dei trent’anni finali del XX secolo, il vento della storia economica ha ricominciato a soffiare in modo impetuoso in tutt’altra direzione (grandi imprese hi-tech, automazione e digitalizzazione, globalizzazione) con all’orizzonte la terziarizzazione e l’informatizzazione delle economie avanzate. Tutti fenomeni che enfatizzavano il ruolo delle città a scapito dei territori periferici.

Alte professionalità e contenuti terziari sono gli ingredienti di base della nuova crescita (sia della produttività, sia delle città) negli Usa, in Inghilterra, in Germania, e in molti altri Paesi oggi trainanti. Appare evidente come le professioni elevate, frutto di corsi di studio universitari avanzati, siano il motore del successo di queste economie. Del resto, la migliore performance del nostro Paese negli ultimissimi anni sembra essere la diretta conseguenza delle politiche pubbliche di sostegno alla digitalizzazione e all’innovazione (Industria 4.0, Pnrr, in primis), le quali tuttavia poco si sono dedicate al settore terziario e delle professioni. Un ritardo che apre una riflessione sul ruolo delle alte professionalità per un necessario quanto rapido cambio di passo nel nostro Paese. Come pure la necessità di indicare strategie strutturali per rimettere in carreggiata la nostra economia nell’epoca delle economie terziarizzate.

 

Un primato europeo

Una nota di ottimismo viene dalle recenti osservazioni di Roberto Volpi a proposito delle statistiche della Population Division dell’Onu. Infatti, se si guarda ai confini delle aree urbane e non ai confini comunali, «l’Italia è il primo Paese europeo per numero di città con oltre 300 mila abitanti (32), e al secondo posto, dietro alla Gran Bretagna, per numero di abitanti che in queste città vivono: nel 2020 poco più di 26 milioni». Le proiezioni demografiche ci dicono che nel 2035 la popolazione italiana sarà di 57,3 milioni, mentre nelle città con oltre 300 mila abitanti la popolazione supererà i 27 milioni di abitanti (il 47% del totale).

Sotto questo profilo Milano rappresenta un caso esemplare, proprio per le sue valenze anche simboliche (da capitale delle tute blu a deserto industriale). La Milano operaia degli anni Sessanta e Settanta è rapidamente scomparsa. La popolazione della Città metropolitana di Milano contava 1.929.687 abitanti nel 1951, cresce impetuosamente nei vent’anni successivi, fino toccare i 3.087.296 nel 1971. Rimane stabile negli anni settanta, quindi diminuisce leggermente nei due decenni successivi (2.940.579 nel 2001) per poi risalire di quasi 300 mila unità nei primi due decenni del XXI secolo, toccando il massimo storico nel 2021 con 3.214.630 abitanti.

Nel frattempo la sua composizione interna muta completamente pelle: gli over 65 sono circa 735 mila nel 2021, quasi 100 mila in più rispetto a vent’anni prima; la classe di età 15-64 anni si riduce a 2 milioni, circa 500 mila in meno rispetto al 2001. Nel 1971 gli addetti all’industria manifatturiera erano poco più di 800 mila, cinquant’anni dopo, nel 2021, sono circa 200 mila, quattro volte in meno, interamente sostituiti da addetti al terziario. Se invece guardiamo ai soli lavoratori dipendenti, l’industria nel suo complesso (comprese le costruzioni) ne conta 270 mila nel 2020, quattro volte in meno rispetto agli anni Settanta, e dimezzati rispetto al 1990. In parallelo, di altrettanto aumentano in modo vertiginoso i dipendenti del settore terziario, i quali nel 2020 assommano a circa 910 mila, quasi il doppio rispetto al 1990.

 

Le politiche di sviluppo

Come altre volte in passato la rincorsa non è fuori dalla portata del nostro Paese e il terreno perduto può essere recuperato. A patto di un maggiore chiarezza delle sfide da affrontare e di una volontà comune alle istituzioni e ai corpi intermedi di cooperare per trasformare le criticità in opportunità. Si tratta di una missione troppo ambiziosa? Non è detto, specie se si fa tesoro del bagaglio di esperienze positive maturate nel biennio del Covid, durante il quale istituzioni politiche, pubbliche amministrazioni e associazioni di rappresentanza di interessi hanno mostrato una efficienza cooperativa al di sopra di ogni speranza e di ogni immaginazione.

Non tutti sono d’accordo su questa prospettiva e si chiedono se il nostro Paese sia davvero nel mezzo di una nuova fase (terziarizzazione più ri-urbanizzazione) o si assiste, invece, alla coda di un processo ormai compiuto di affermazione dell’economia delle reti. Nel primo caso, il ritardo italiano andrebbe rapidamente colmato con politiche simili a quelle adottare in altri Paesi per accelerare questi processi di terziarizzazione metropolitana; se invece siamo all’esaurirsi  di un percorso e  stiamo assistendo ad una  progressiva riduzione della rilevanza del fattore di scala (metropolitano), anche in conseguenza del riaggiustamento post-Covid, allora si aprirebbe una nuova finestra di opportunità  (specie per i late comers come il nostro Paese) legata alla diffusione dello smart working e dei modelli di organizzazione del lavoro flessibili, sia per quanto riguarda i tempi che le sedi di lavoro. Ad esempio, la Cina lavora per connettere le campagne alle tecnologie 4G, tanto che già oggi le zone rurali cinesi sono più connesse e più veloci delle rural areas americane.

L’archistar Rem Koolhass, noto per la sua capacità di annusare “the times they are a’changing” (i tempi stanno cambiando), ha di recente organizzato una mostra e pubblicato un report sul ritorno al countryside: La domanda su quale sia il vero driver dello sviluppo contemporaneo (terziario avanzato o economia delle reti) e quali ne siano gli effetti di medio periodo rimane aperta, inevitabilmente destinata ad essere oggetto di ulteriori approfondimenti.

In ogni caso, il nesso terziario avanzato-economia delle reti ha sempre come fulcro i grandi centri urbani, dove anche gli studi professioni si stanno radicalmente trasformando, a causa della rivoluzione digitale e dell’intelligenza artificiale, in particolare per quanto riguarda la dimensione aziendale, la multidisciplinarietà interna, il ruolo della tecnologia. Di qui la sfida, non più eludibile, che viene posta alle associazioni di rappresentanza degli interessi su come rispondere alle nuove domande di una base associativa in via di rapida trasformazione.