di Paolo Feltrin – da Il Libero Professionista Reloaded #27
I dati Eurostat parlano chiaro: nel 2023 l’Italia risultava ancora ferma al terzultimo posto in Europa per giovani tra i 25 e i 34 anni con un’istruzione terziaria, raggiungendo solo il 30,6% di laureati contro una media europea del 43,1%. Siamo davanti solo all’Ungheria (29,4%) e alla Romania (22,5%). È l’Irlanda a detenere il primato con un 62,7% e non sembra essere consolante l’ottavo posto della Francia con un 51,9% o il decimo posto della Germania con il 49%.
Ma ancora peggio va con le discipline tecnico-scientifiche. La sigla STEM nasce dall’inglese Science, Technology, Engineering and Mathematics ed è usata per indicare l’insieme delle discipline scientifico-tecnologiche. A livello europeo, infatti, i laureati in questa area sono circa 23 ogni 1.000 giovani con un’età tra i 20 e i 29 anni. Un dato in leggero ma in progressivo aumento nel corso degli ultimi 6 anni. L’Irlanda, oltre a essere il Paese con la più alta incidenza di laureati tra la fascia di popolazione 25-34 anni, detiene anche il primato di laureati in discipline STEM (popolazione 20-29 anni): ben 40 giovani su 1.000 in età tra i 20 e i 29 anni. In Italia, nonostante un trend in crescita, il dato si attesta a 18,5 laureati STEM ogni 1.000 giovani in tra i 20 e i 29 anni.
Il peso delle lauree triennali
Il punto, come è noto, sia per le lauree STEM sia per il complesso delle lauree, sta nel fallimento dei percorsi di laurea brevi, in particolare dei titoli di studio universitari triennali (conclusi solo da appena 11,8% dei giovani tra i 25 e i 34 anni). Di qui la proposta delle cosiddette lauree professionalizzanti, una sorta di sostituto funzionale delle lauree triennali.
Ma c’è dell’altro. Guardiamo ai titoli di studio secondari. In Italia l’istruzione secondaria superiore rappresenta il livello di istruzione più diffuso: nel 2023, la quota di popolazione 25-34 anni in possesso di un diploma è stata pari a 49,5%, un valore superiore a quello medio europeo (42,4% nell’Ue a 27 paesi) e a quello di alcuni tra i più grandi paesi dell’Unione: Germania (44,9%), Francia (37,3%) e Spagna (22,3%), paesi dove, tuttavia, si riscontra un maggior numero di laureati. Stesso discorso per i livelli di istruzione primaria, troppo elevati rispetto agli altri paesi europei. Come a dire che a non funzionare sono, sia il passaggio dalla scuola primaria alla secondaria, sia quello dalla secondaria all’università. Con la conseguenza che da noi troppo pochi giovani si presentano in regola per accedere all’istruzione universitaria, pochi si iscrivono a un corso di laurea, ancora meno lo completano, anche a causa di una eccessiva dispersione scolastica nel primo e secondo anno del corso di studi.
Infine, l’età in cui si dovrebbe concludere il percorso di studi è ben lontana dal valore medio teorico in cui effettivamente i giovani lo concludono.
L’ingresso al lavoro va anticipato
Ad aggravare la situazione italiana c’è poi l’assoluta mancanza di incentivi alla partecipazione degli studenti al mercato del lavoro. L’Italia è, tra i grandi paesi europei, quello con la più bassa percentuale di studenti impegnati in qualche forma di occupazione: solo il 3%. Di contro la Germania, grazie a percorsi che conciliano l’esperienza lavorativa e lo studio, arriva al 23,5% di giovani studenti lavoratori.
Come ha osservato di recente lo storico Andrea Graziosi, l’Italia ha ancora oggi meno “università” di quante ne potrebbe avere se si capisse che nella società post-industriale l’istruzione terziaria è per sua natura differenziata e potrebbe (e dovrebbe) quindi articolarsi su più tipi di istituzioni, con obiettivi e magari con nomi diversi. Negli Stati Uniti si va per esempio dai community colleges a università famose nel mondo e anche per questo vi sono tanti “laureati”, molti dei quali in Italia non sarebbero considerati tali. Ed è questo il punto da sottolineare: molti dei quali in Italia non sarebbero considerati tali! Non a caso il successo delle università telematiche nel nostro paese, per lo più seguite da persone che già lavorano, costituisce un preciso segnale delle insufficienze del nostro sistema universitario.
Che fare? Un possibile vademecum per una strategia di intervento potrebbe essere il seguente: 1) ridurre i cicli di studio primario e secondario allineandoli a quelli dei principali paesi occidentali; 2) lotta alla dispersione scolastica in tutti i gradi di istruzione; 3) potenziare e riconoscere le lauree professionalizzanti (max 3 anni); 4) potenziare le borse di studio e il prestito d’onore; 5) incentivare fiscalmente l’apprendistato professionalizzante e riconoscerlo legalmente alla stessa stregua dei titoli universitari; 6) aumentare la varietà nella difficoltà degli stessi diplomi universitari anche attraverso una differenziazione del valore legale dei titoli di studio.
Con quali forze e con quali risorse perseguirlo? Domanda inevitabile da porre innanzitutto alle associazioni di rappresentanza delle libere professioni e delle alte professionalità. A chi se non a loro dovrebbe stare a cuore il futuro dell’istruzione terziaria nel nostro paese?