L’inverno demografico

Il Paese invecchia e non fa figli. Negli ultimi otto anni l’Italia ha perso un milione e mezzo di residenti. L’indice di vecchiaia aumenta in maniera esponenziale e il tasso di natalità diminuisce anno dopo anno. Gli effetti del declino sul lavoro, sul welfare e sulle professioni. Parla Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat.

Da Il Libero Professioista Reloaded #10

Al 31 dicembre 2021 la popolazione censita in Italia dall’Istat ammontava a 59.030.133. Nel giro di un anno abbiamo perso 206.080 residenti (-0,3% rispetto al 2020), soprattutto nel Centro Italia e nelle regioni settentrionali. Sulla dinamica demografica pesa ancora il Covid (oltre 700 mila decessi, seppur in diminuzione rispetto la 2021), ma il calo della popolazione non è dovuto solo al saldo naturale negativo e si accompagna in parte anche alla flessione degli stranieri, scesi di oltre 140 mila negli ultimi 12 mesi.

Tirando le somme, abbiamo un Paese che invecchia e che non fa figli: l’età media si è alzata di tre anni rispetto al 2021 (da 43 a 46 anni) e l’indice di vecchiaia (il rapporto tra la popolazione degli over 65 e quella degli under 15) è notevolmente aumentato e continua a crescere: da 33,5% del 1951 a 187,6% del 2021. Allo stesso tempo, anno dopo anno la denatalità segna nuovi record negativi e solo nel 2021 si sono registrate 400 mila nascite (4.600 in meno rispetto al 2020) e il numero medio di figli per donna si è assestato sulla soglia di 1,25 (tra il 2008 e il 2010 era a 1,44).

Questi numeri sono solo la punta dell’iceberg di un fenomeno che Gian Carlo Blangiardo, non esita a definire “l’inverno demografico”. Intervenuto lo scorso 15 dicembre a Roma alla presentazione del VII Rapporto sulle libere professioni di Confprofessioni, il presidente dell’Istat non ci gira tanto intorno e va dritto al nocciolo della questione demografica, un fenomeno che comincia a toccare da vicino anche i liberi professionisti. «Il mondo dei demografi, un po’ inascoltati, è da tempo che sta lanciando l’allarme: i dati del censimento 2021 ci dicono che siamo tornati sotto i 60 milioni di residenti. Ciò significa che abbiamo perso un milione e mezzo di persone dal 2014 a oggi».

Che cosa potrebbe accadere nei prossimi anni?

Previsioni ragionevoli fanno sì che i 59 milioni di oggi in prospettiva – nel 2070 – scenderanno a 48 milioni, quindi 11 milioni di italiani in meno. Un grande Paese che perde 11 milioni di abitanti. Che peraltro sono concentrati nella fascia tra i 20 e 67 anni. Da un lato c’è la riduzione della componente più giovane e matura; dall’altro un forte aumento della componente anziana. Ed è facilmente intuibile immaginare gli effetti sugli equilibri di welfare con una popolazione di due milioni e duecento mila persone con almeno 90 anni, di cui 140 mila ultracentenari. È uno scenario realistico, non è fantascienza, tra 50 anni l’Italia potrebbe avere 48 milioni di abitanti.

In un Paese che non fa figli tutto lascia presagire che anche il tasso di natalità non sarà destinato a invertire la rotta. Quali previsioni per il futuro?

Con 400 mila nuove nascite nel 2021 abbiamo registrato un nuovo record negativo per la natalità e anche nel 2022 i dati tra gennaio e settembre indicano 6 mila nascite in meno rispetto allo stesso periodo del 2021. Se non si inverte la tendenza, a dicembre 2022 avremo perso altri 8 mila nati. Il punto è che ancora una volta avremmo un altro anno con la più bassa natalità di sempre. Il livello di fecondità delle donne ha un valore medio di 1,25 figli, ma se anche si arrivasse a due figli per donna, ipotesi assai improbabile, le nascite arriverebbero a 500 mila, meno di quel che erano nel 2008, anno da cui è iniziata una brusca discesa. Insomma, la strada è in salita.

È solo un problema di fecondità?

No, anche se aumentasse il tasso di fecondità, avremo in prospettiva un vertiginoso calo di donne in età feconda: oggi abbiamo 12 milioni di donne tra i 15 e i 50 anni, tra 50 anni saranno 8 milioni. Si tratta di un elemento strutturale con cui fare i conti.

Dobbiamo fare i conti anche con i giovani?

Le proiezioni statistiche ci dicono che nel 2021 la popolazione tra i 25 e i 34 anni era pari a 8,7 milioni. Oggi sono 6,2 milioni. Se stringiamo il campo sulla fascia d’età compresa tra i 20 e i 29 anni tra trent’anni avremo 4,6 milioni di giovani, con un saldo negativo di oltre 1,5 milioni.

Quale sarà l’impatto sulle libere professioni?

Tutto ciò che alimenta il mondo dei professionisti va progressivamente assottigliandosi. Ragioniamo sui diplomati e sui laureati che rappresentano il principale serbatoio delle professioni. Oggi abbiamo un flusso medio annuo di circa 400 mila diplomati tra i 18-20 anni, e circa 200 mila laureati tra 23 e 29 anni. Applicando i tassi di acquisizione di una laurea o di un diploma alla popolazione futura, tra due decenni avremo 294 mila diplomati, mentre i laureati scenderanno a quota 160 mila. La strada che porta i giovani verso la libera professioni è sempre più stretta.

Il VII Rapporto sulle libere professioni di Confprofessioni ha lanciato l’allarme sulla fuga dei neolaureati dalla libera professione, come si può intervenire?

Bisogna investire sui giovani, dare loro prospettive di crescita professionale. Si discute molto di equo compenso per i professionisti e credo che possa essere un valido strumento per avvicinare i neolaureati alla professione, in modo che l’inizio dell’attività possa essere vissuto come un investimento per il futuro.

I dati statistici ci consegnano uno scenario allarmante. Che cosa può fare la politica per invertire la rotta?

I numeri statistici devono creare consapevolezza. Sappiamo qual è il problema e quali sono le difficoltà e ne abbiamo una dimensione. Adesso si tratta di trovare le soluzioni. La politica ha iniziato a cercare di invertire la tendenza e l’assegno unico può essere uno strumento che aiuta ad affrontare la crisi della natalità, però è chiaro che il percorso è in salita e le cose da fare sono impegnative