Associazione tra professionisti, il passaggio di mano

Di Lelio Cacciapaglia e Maurizio Tozzi

Nonostante l’avvento delle società tra professionisti (STP) delle quali si è in attesa dell’attuazione della riforma fiscale, le associazioni professionali restano lo strumento storicamente più utilizzato per svolgere l’attività professionale in forma aggregata. Proprio perché si tratta della forma associativa che fino a pochi anni fa era anche l’unica conosciuta e consentita per poter fare squadra e attuare sinergie professionali, è anche quella i cui soci sono più avanti con l’età.

Si pone, dunque, il problema del cambio generazionale e passaggio di mano da genitori e figli o, peggio, del subentro degli eredi nella posizione del de cuius.

Vi sono conseguentemente problemi, legali, fiscali, successori, peraltro non del tutto ufficialmente codificati.

L’associazione professionale, infatti, è un istituto sconosciuto al codice civile e regolato dalla pratica. Le associazioni professionali sono state assimilate alle società semplici ma non sia ha una norma codicistica che in modo trasparente ufficializzi questa assimilazione. Ha sopperito il fisco che nell’articolo 5, comma 3, lett. C) del Tuir ha equiparato le associazioni per l’esercizio in forma associata delle arti e delle professioni alle società semplici, applicando la regola della trasparenza. Vi sono poi norma speciali che danno per scontato che le associazioni professionali esistano ed operino (Legge Bersani e non solo).

Fatto sta che alla morte dell’associato si pone il problema di comprendere se gli eredi possano subentrare nella posizione del socio o, diversamente, abbiano solo il diritto alla quota di patrimonio dell’associazione corrispondente alla percentuale di partecipazione del de cuius, se possano ottenere denaro o anche beni dell’associazione, come si conteggiano a tal fine gli utili maturati sino alla data del decesso, come si gestiscano gli incarichi professionali in portafoglio, a chi debba essere imputato il reddito prodotto dall’associazione nell’anno in cui uno dei soci viene meno. Il tutto caratterizzato da una certa dose di incertezza posto che in campo fiscale l’amministrazione finanziaria si è concentrata più che altro sul decesso del professionista singolo. In questo contributo ci limitiamo ad affrontare facendo il carico di sé e di ma…, la sola questione del decesso del de cuius senza subentro da parte degli eredi e con prosecuzione dell’associazione in capo agli associati reduci.

 

L’associazione professionale

L’associazione tra professionisti è sconosciuta al codice civile, ma più volte richiamata nell’ambito di altre disposizioni normative: ad esempio la legge che ha introdotto nel nostro ordinamento le STP (articolo 10, comma 9 della legge n. 183/2011) le riconosce posto che afferma: “Restano salve le associazioni professionali, nonché i diversi modelli societari già vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge”. Prima ancora la seconda legge Bersani (D.L. n. 223/2006) ha stabilito che “le associazioni tra professionisti … (omissis)… “possono fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinari, cessione della clientela o di elementi immateriali comunque riferibili all’attività artistica o professionale”.

Senonché, una definizione normativa di associazione tra professionisti (o artisti) manca.

In dottrina, c’è chi ritiene si tratti di una associazione (come gli enti di promozione sociale), c’è chi afferma che si tratti di una società semplice.

Secondo una prima linea di pensiero, l’associazione professionale apparterrebbe al genus delle associazioni atipiche, riconducibile al fenomeno delle associazioni non riconosciute di cui all’articolo 36 del c.c., in quanto caratterizzata da un insieme di rapporti obbligatori dei singoli associati, destinati ad operare esclusivamente tra tali soggetti.

Tale orientamento ha trovato un autorevole sostegno da parte della Suprema Corte che, in una decisione assunta a Sezioni Unite, ha avuto modo di qualificare l’associazione professionale come contratto associativo atipico con rilevanza meramente interna, in cui prevale, nei confronti dei terzi, la personalità del rapporto tra professionista e singolo cliente dello studio.

 

Corte di Cassazione, SS.UU., 5 novembre 1993, sentenza n. 10942
L’esercizio in forma associata delle c.d. professioni protette ed in particolare di quella legale è possibile solo nella forma del cosiddetto studio associato, ove ad un contratto associativo con rilevanza interna, si sovrappone il principio della personalità della prestazione professionale dei rapporti con i clienti, e che lo stesso principio vale a legittimare costituendone la specifica ratio, la obbligatorietà dei rigorosi requisiti formali richiesti dall’articolo 1 della legge 25 novembre 1939, n. 1815 per lo svolgimento in forma associata della professione forense.

 

A giudizio di altra tesi interpretativa, espressa peraltro da un’isolata pronuncia di merito, l’associazione professionale andrebbe, al contrario, qualificata come società di persone in quanto avrebbe tutti gli elementi di tale contratto sociale, rappresentati dalla prevalenza dell’apporto individuale dei soci. Inoltre, stante la natura non commerciale dell’attività svolta, il tipo societario cui ricondurre tale ipotesi sarebbe quello della società semplice.

 

Corte d’Appello Milano, 19 aprile 1996
In caso di decesso dell’associato, la liquidazione della quota agli eredi del partecipante ad una associazione professionale trova il suo specifico referente normativo nell’articolo 2284 c.c., dettato in tema di società semplice, la cui disciplina è applicabile, in via diretta e non analogica, all’associazione tra professionisti, prevista dalla legge 23 novembre 1939, n. 1815, essendo tale associazione una delle più rilevanti concrete manifestazioni di detto tipo di società.

 

Da ciò, discenderebbe il riconoscimento all’associazione professionale di autonomo centro di imputazione giuridico, con una rilevanza che, in questo caso, avrebbe riflessi anche nei confronti dei terzi.

Infine, secondo un ultimo e prevalente orientamento, espresso dalla più recente giurisprudenza di legittimità (Cassazione, Sez. I Civ., 15 luglio 2011, Sent. n. 15694; Cassazione, Sez. I civile, 28 luglio 2010, Sent. n. 17683; Cass. n. 15417/2016; Cass. n. 8768/2018) lo studio associato, ancorché privo di personalità giuridica, sarebbe comunque dotato della capacità di porsi come autonomo centro di imputazione di rapporti giuridici, secondo lo schema normativo proprio delle associazioni non riconosciute, di cui agli articoli 36 e seguenti del c.c. Conseguentemente, lo studio professionale sarebbe munito della piena legittimazione processuale, sia attiva che passiva, relativa a tutte le posizioni giuridiche di cui lo stesso è titolare, non operando quindi come mero sostituto degli associati, ma in proprio per la tutela di posizioni giuridiche ad esso riferibili.

 

Alla lacuna legislativa ha supplito da tempo immemore, con finalità egoistica, la legislazione fiscale che, nell’ambito dell’articolo 5 del TUIR (Redditi prodotti in forma associata) ne disciplina solo l’assimilazione alla società semplici ai fini della tassazione.

 

Articolo 5, comma 3, lett. C), tuir
3. Ai fini delle imposte sui redditi:

[…]

c) le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni sono equiparate alle società semplici.

 

In conseguenza di tale classificazione il reddito dell’associazione professionale è imputato al termine del periodo d’imposta ad ognuno dei componenti l’associazione per trasparenza a prescindere dalla distribuzione dei relativi utili.

 

 

Studio associato – il decesso del professionista  

Il decesso del professionista che fa parte di uno studio associato comporta la cessazione del rapporto limitatamente ad esso. Sul punto si ritengono applicabili le norme codicistiche riferite alla società di persone e quindi l’articolo 2284 del C.C., il quale prevede che: “Salvo contraria disposizione del contratto sociale, in caso di morte di uno dei soci, gli altri devono liquidare la quota agli eredi, a meno che non preferiscano sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi stessi e questi vi acconsentano”.

Senonchè, già nella generalità di società di persone, il subentro degli eredi è assai rara posto che l’intuitus persone che caratterizza il rapporto tra i soci comporta la preclusione normativa al subentro salva diversa volontà dei soci superstiti e consenso degli eredi. A maggior ragione nel caso di attività professionale protetta (soggetti con obbligo di iscrizione all’albo) vi è un ostacolo giuridico al subentro di eredi non titolati.

 

La liquidazione della quota agli eredi

Ebbene, agli eredi compete senz’altro la liquidazione della quota posseduta dal de cuius nell’associazione. Si tratta della:

1) quota di utili in corso maturati alla data del decesso (1° gennaio – data decesso);

2) quota di patrimonio netto dell’associazione, costituita dagli utili maturati fino al 31 dicembre dell’anno precedente e non distribuiti.

 

Ciò detto, il patrimonio dell’associazione può essere composto da:

  1. a) beni materiali e immateriali conferiti nel tempo dagli associati in proprietà o in godimento, nonché crediti verso clienti non ancora riscossi;
  2. b) incrementi patrimoniali per effetto di impieghi di liquidità derivante dalla gestione dell’associazione.

 

Il criterio di determinazione del valore della quota

E’ bene prevedere nello statuto associativo le regole per individuare il valore in caso sia di recesso del socio, sia di liquidazione della quota agli eredi. Se ciò non è stato fatto all’atto della costituzione dell’associazione, è sempre utile prevederlo con una modifica dei patti associativi. Ciò al fine di evitare successivi defaticanti e stressanti contenziosi.

La determinazione del valore della quota dell’associato venuto meno, infatti, presenta ampi margini di approssimazione concettuale tenuto conto dei diversi criteri all’uopo utilizzabili in assenza di linee guida codificate.

Intanto è già complesso stabilire alla data del decesso qual sia la quota di utili in corso tenuto conto che la contabilità dell’associazione potrebbe non essere gestita con la tecnica della partita doppia. Talchè le possibilità sono:

  • criterio di competenza: differenza tra compensi e costi maturati alla data della morte ancorché non incassati/pagati;
  • criterio di cassa: differenza tra incassi dei compensi e spese pagate.

E’ evidente che il criterio di cassa è più semplice da utilizzare e una volta adottato porta a un risultato incontrovertibile.

Senonché si presta in taluni casi ad approssimazioni non tollerabili. S’immagini uno studio associato di avvocati con sta seguendo una rilevante causa penale in cui una parte dei compensi sono maturati ma non ancora neanche fatturati; stesso dicasi uno studio associato tra ingegneri che ha in corso di realizzazione un importante progetto urbanistico con fatture emesse ma non ancora incassate. Viceversa si pensi all’associazione tra commercialisti che ha percepito un compenso a titolo di anticipo per una prestazione che deve essere ancora interamente svolta.

Fatto sta che usualmente nei patti associativi si utilizza una formula del seguente tenore, (Fondazione Aristeia, aprile 2005) valida anche in caso di interruzione del rapporto a causa di decesso: L’associato cessato, pur non prestando più la sua opera all’interno dello Studio continuerà, sino ad esaurimento dei rapporti pendenti, a partecipare agli utili dello Studio, limitatamente alla sua quota relativa a lavoro svolto sino al momento dell’uscita ma incassato successivamente.

Ciò detto, il problema del criterio di competenza è che la determinazione della prestazione svolta e da svolgere alla data del decesso è di oggettiva complessità e soprattutto, di fatto, nelle mani dei professionisti reduci, ben difficilmente sindacabile dagli eredi. Peraltro, per poter effettuare una valutazione del “maturato” occorrerebbe avere a disposizione “le carte” sulle quali gli associati reduci potrebbero opporre il segreto d’ufficio.  Resterebbe comunque l’alea della possibilità una volta calcolato il “maturato” del mancato pagamento da parte dei clienti, cosa certamente non impossibile.

Una clausola che può essere anche inserita (Fondazione Aristeia, aprile 2005) è la seguente: “è data facoltà alle parti di convenire la liquidazione della quota spettante all’associato uscito in modo forfetario e transattivo, sulla base della situazione patrimoniale ed economica dello Studio al momento dell’uscita, tenuto adeguato conto dei rischi e tempi occorrenti per il normale incasso.”.

In definitiva, la valutazione della quota ove non idoneamente quantificata in sede statutaria diviene frutto di trattativa.

 

La liquidazione della quota

La prestazione professionale svolta dal de cuius resta giuridicamente acquisita dello studio associato.

In considerazione dell’assimilazione delle associazioni professionali alle società di persone si ritiene che si debba applicare l’articolo 2289 C.C. il quale stabilisce che “Nei casi in cui il rapporto sociale si scioglie limitatamente ad un socio, questi o i suoi eredi hanno diritto soltanto ad una somma di denaro che rappresenti il valore della quota. La liquidazione della quota è fatta in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento…omissis…”.

La formulazione normativa porta ad escludere, salvo diverso accordo degli interessati, che gli eredi possano pretendere la restituzione dei beni conferiti dal de cuius in proprietà o godimento, potendo invece ottenere solo denaro.

 

Soggetto obbligato al pagamento della quota

Si tratta di un aspetto per nulla pacifico la cui soluzione adottata ha, peraltro, impatto notevole a livello fiscale.

Quota a carico dell’associazione

Una tesi prevede che debba essere l’associazione a farsi materialmente carico dell’esborso di denaro spettante agli eredi e non i soci reduci. Ciò per assonanza con la liquidazione della quota delle società di persone. In sostanza, vengono attribuiti agli eredi somme che comportano la riduzione del patrimonio netto dell’associazione

Tale presa di posizione è confortata dalla Risoluzione del 25/02/2008 n. 6 dell’agenzia delle entrate riferita al recesso del socio di una società di persone. È vero che una associazione non è una società di persone ma, come prima detto, l’articolo 5 del Tuir, stabilisce che “ai fini delle imposte sui redditi, …c) le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni sono equiparate alle società semplici.

Accedendo a questa tesi, si osserva che la predetta Risoluzione n. 6/2008 ha stabilito che occorre dividere in due parti l’importo riconosciuto al socio receduto (ma le conclusioni sembrano applicabili anche in caso di decesso del socio):

  1. la quota riferita alla percentuale di patrimonio netto contabile della società alla data dele decesso (bilancio straordinario) di pertinenza degli eredi la cui liquidazione agli eredi non ha alcun impatto sulla fiscalità delle società;
  2. l’eccedenza non individuabile dal patrimonio netto contabile ma frutto di maggiori valori intriseci dei cespiti ovvero dell’avviamento, sempre da liquidarsi agli eredi, costituisce, invece, un componente negativo deducibile per la società.

Senonché, applicare questi concetti all’associazione professionale che determina il proprio reddito per cassa è operazione oggettivamente complessa. A partire dal fatto che occorrerebbe costruire una situazione patrimoniale la cui significatività potrebbe essere assai parziale se non fuorviante posto che non necessariamente individuerebbe un patrimonio netto contabile che corrisponda ai conferimenti degli associati e agli utili (tassati) non ancora distribuiti.

Ad ogni modo, in questa ipotesi, per l’associazione professionale la quota liquidata agli eredi per la parte che eccede il corrispondente valore del patrimonio netto contabile alla data del decesso, costituisce componente negativo deducibile dal reddito. Resta la frustrazione di non avere alcun lume in sede di compilazione al Modello Redditi a Redditi SP, posto che il quadro RE non presenta alcun rigo per indjcare tale componente negativo, mancando a differenza del quadro delle società di persone (RG) un rigo residuale 99 sul quale poter fare affidamento.

 

Quota a carico degli associati

Altra tesi che si poggia sull’articolo 2284 del codice civile il quale si applica alle società semplici, afferma che sono gli associati reduci a doveri fare carico della liquidazione della quota. Ciò in quanto, il citato articolo stabilisce che “Salvo contraria disposizione del contratto sociale, in caso di morte di uno dei soci, gli altri devono liquidare la quota agli eredi, a meno che preferiscano sciogliere la società ovvero continuarla con gli eredi stessi se questi vi acconsentano”.

In questo caso, evidentemente, il patrimonio associativo non viene toccato e la quota liquidata agli eredi accresce quella degli associati superstiti che si sono fatti carico del pagamento. Conseguentemente le somme che i soci reduci corrispondono agli eredi non possono neanche per la parte eccedente la corrispondenza quota del patrimonio netto contabile costituire per l’associazione professionale un componente negativo di reddito dell’associazione medesima. Di conseguenza, dette somme corrisposte dai soci comportano un incremento del costo fiscalmente riconosciuto della loro quota di partecipazione nell’associazione.

E’ di tutta evidenza che il diverso approccio ha un impatto notevole in termini di fiscalità.

Resta sempre per uscire dall’incertezza la possibilità di applicare il citato articolo 2284 del codice civile che consente sempre di optare per la liquidazione da parte della società tenuto conto del “salvo contraria disposizione del contratto sociale”. E se il contratto sociale (associativo) nulla dispone è da ritenersi che comunque l’univoca volontà di tutti gli interessati vale come scelta di fatto.

 

Dichiarazione dei redditi dell’associazione – periodo d’imposta in cui avviene il decesso

Come precisato con risoluzione 17 aprile 2008, n. 157/E, nell’ipotesi in cui muta la compagine sociale di una società di persone, il reddito prodotto deve essere riferito esclusivamente ai soci che rivestono tale qualifica alla chiusura del periodo di imposta. Ne consegue -e su questo sembra non vi possano essere dubbi- che il reddito dell’intero anno debba essere dichiarato solo dai soci reduci.

D’altronde non sembra porsi nel caso del decesso il problema che invece si pone nel recesso del socio, i cui effetti per quanto ricettivi (notifica della raccomandata alla società) comportano comunque la necessità di iscrizione al registro delle imprese per la conoscibilità dei terzi. L’agenzia ha chiarito che è queta la data da cui il recesso anche fiscalmente ha effetto.

Intanto perché, come noto, le associazioni tra professionisti non sono soggetti iscrivibili al registro delle imprese e poi perché la morte è fatto inequivocabile che non richiede alcuna dimostrazione. Né si può dare per scontato che gli eredi si debbano considerare soggetti subentrati al de cuius, salvo prova contraria.

 

Tassazione dei redditi percepiti dall’erede

L’articolo 5 comma 3 lettera c) del TUIR, come già detto, stabilisce ai fini della tassazione sulle imposte sui redditi, che le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni sono equiparate alle società semplici.

L’art.  7 comma 3 del TUIR prevede che in caso di morte dell’avente diritto, i redditi che secondo le disposizioni relative alla categoria di appartenenza sono imputabili al periodo di imposta in cui sono percepiti devono essere determinati a norma delle stesse disposizioni e sono tassati separatamente nei confronti degli eredi e legatari che li hanno percepiti secondo le disposizioni degli articoli 17 e 21 del medesimo Tuir.

Ebbene, l’art  17 comma 1 lettera l) del TUIR stabilisce che possono essere soggetti a tassazione separata “i redditi compresi nelle somme attribuite o nel valore normale dei beni assegnati ai soci delle società indicate nell’articolo 5 del TUIR nei casi di recesso, esclusione e riduzione del capitale  e agli eredi  in caso di morte del socio, e redditi imputati ai soci in dipendenza di liquidazione , anche concorsuale , delle società stesse , se il periodo di tempo intercorso tra la costituzione della società e la comunicazione di recesso o dell’esclusione, la delibera di riduzione del capitale, la morte del socio o l’inizio della liquidazione è superiore a cinque anni”.

Senonché, non sono meramente e semplicemente le somme incassate dagli eredi che vanno tassate (separatamente) bensì solo le eccedenze rispetto al valore fiscale della quota del de cuius, applicandosi al riguardo l’articolo 20-bis Tuir il quale stabilisce che costituiscono reddito le somme “attribuite” o il valore normale dei beni assegnati ai soci delle società di persone nei casi di recesso o agli eredi in caso di morte del socio, per la differenza che eccede il prezzo pagato per l’acquisto o la sottoscrizione delle quote annullate (applicandosi le disposizioni dell’articolo 47, comma 7, Tuir , in quanto compatibili).

Si è ben consapevoli che si stanno adottando delle soluzioni di sponda da fare impallidire anche il miglior giocatore di biliardo tenuto conto che sulla specifica questione dell’associazione tra professionisti si ha la frustrazione di non avere alcun supporto interpretativo ufficiale tuttavia, non sembra si possa giungere a soluzione diversa da quella ora esposta poiché se così non fosse si avrebbe l’assoggettamento a tassazione in capo agli eredi anche degli eventuali conferimenti del de cuius, oggetto di “restituzione” agli eredi.

Riprendendo il discorso, le somme incassate dagli eredi, per la parte imponibile, possono fruire del regime di tassazione separata (art. 17, comma 1, lett. l del Tuir), indicando ognuno la propria quota di reddito nel quadro M del mod. 740 se l’associazione, alla data del decesso, era costituita da oltre cinque anni. Diversamente o comunque per scelta dell’erede la quota di reddito a esso imputata va dichiarata nel quadro H del mod. 740. Nessuna quota di reddito derivante dall’associazione deve essere invece indicata nella dichiarazione che uno degli eredi presenta per l’associato deceduto. In detta (ultima) dichiarazione, infatti, il reddito di partecipazione all’associazione non deve essere presente dal momento che è tutto di pertinenza dei soci reduci.

É nuovamente il caso di sottolineare che il conteggio del lasso temporale quinquennale si calcola dalla costituzione dello studio associato fino al decesso del professionista e non dal momento in cui il professionista deceduto è diventato socio.

 

La dichiarazione di successione ereditaria

Il valore della quota di partecipazione del de cuius, laddove gli eredi non siano subentrati nel rapporto associativo, nella dichiarazione di successione va indicato nel “Quadro ER – rendite crediti e altri beni”.

In particolare, le istruzioni al modello chiariscono che “Il presente quadro deve essere utilizzato per indicare le rendite e le pensioni, i crediti, gli altri beni…”. Più in particolare è detto che “Rientra nei diritti di credito anche il diritto alla liquidazione delle quote di società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice, comprese quelle equiparate secondo le disposizioni delle imposte sui redditi. Il valore del suddetto diritto di credito è determinato in base al valore, alla data dell’apertura della successione, del patrimonio netto della società, risultante dall’ultimo inventario regolarmente redatto ovvero in mancanza di questo, al valore complessivo dei beni e diritti appartenenti alla società al netto delle passività (art. 16 TUS).”.

La disposizione è certamente favorevole (come in tutti i casi in cui cadono in successione azioni o quote di società), posto che occorre limitarsi ad indicare il valore del patrimonio netto contabile.