Non c’è IA senza IE

Per governare al meglio la crescita dell’intelligenza artificiale le organizzazioni devono sviluppare più intelligenza emotiva al loro interno. Solo così potranno continuare a perfomare e a mantenere alta la loro competitività

di Carolina Parma – da Il Libero Professionista Reloaded #24

 

Uno scenario sempre più governato dagli algoritmi può comportare diversi rischi per il benessere delle persone, soprattutto se lo sviluppo di queste strategie rivoluzionarie non viene gestito con la dovuta sensibilità, consapevolezza, spirito critico e con la giusta attenzione nello stabilire una scala di priorità nella definizione degli obiettivi organizzativi in linea con uno sviluppo sostenibile. In questo scenario l’Intelligenza Emotiva, ovvero la capacità di ognuno di noi di comprendere, utilizzare e gestire le emozioni in modi positivi per alleviare lo stress, comunicare con efficacia, entrare in empatia con gli altri, superare le sfide e disinnescare i conflitti, è fondamentale.

Non solo nella vita privata ma anche nell’ ambiente di lavoro dove, oggi più che mai, non basta più avere «competenze tecniche eccellenti e neanche un altissimo quoziente intellettivo», come ha detto Daniel Goleman, psicologo, quotato autore di management strategico e padre della teoria della emotional intelligence. Secondo l’esperto stutunitense occorre anche una componente irrazionale ed emotiva, un mix di capacità di conoscere e controllare sé stessi e di capire e coinvolgere gli altri, che migliora le proprie prestazioni, la propria autoconsapevolezza, il benessere mentale e il proprio sviluppo professionale.

Ma sviluppare l’Intelligenza Emotiva serve anche a gestire al meglio quella artificiale. «Ci sono almeno due aspetti che collegano l’IE e l’IA.  Il primo è legato alla gestione dell’Intelligenza artificiale. Il secondo, invece, al suo nutrimento ed educazione», spiega Lorenzo Fariselli, direttore di Six Second Europa, il più grande network di intelligenza emotiva al mondo. «Per quanto riguarda il primo punto è importante che l’innovazione tecnologica vada di pari passo con l’evoluzione umana, questo vale sia per coloro che hanno il compito di programmare le macchine di nuova generazione sia per chi le utilizza. A uno stadio di innovazione tecnologica evoluto deve corrispondere un alto livello di formazione umana se si vogliono evitare problemi di carattere sociale e non solo. Per gestire l’IA e non essere fagocitati dal sistema che stiamo creando, dobbiamo prima di tutto evolvere come uomini. E in questo l’intelligenza emotiva può aiutare molto».

Così anche sul fronte del nutrimento e all’educazione dell’IA. «L’intelligenza artificiale, al momento, per essere attivata deve ricevere dati, concetti e idee che poi vengono rielaborati» prosegue Fariselli. «Per capire l’importanza dell’evoluzione dell’intelligenza emozionale per lo sviluppo dell’IA basti dire che se oggi chiediamo all’ Intelligenza artificiale di creare l’immagine di un leader aziendale viene elaborata la figura di un leone con la cravatta. Ciò perché l’IA prende come fonte i nostri bias. Solo attraverso una sua personale evoluzione l’uomo può, dunque, aiutare AI a maturare meglio.

Le persone fanno la differenza

Gestire le emozioni per crescere, migliorare come persone e creare ambienti sociali e di lavoro più evoluti.  Passaggi importanti che anche le aziende dovrebbero interiorizzare iniziando a lavorare sullo sviluppo dell’Intelligenza emotiva dei loro dipendenti. «Dopotutto un’azienda è fatta di persone, sono loro a fare la differenza nel bene e nel male. Da qui l’importanza di farle sentire bene, di motivarle e coinvolgere. Persone soddisfatte del lavoro che fanno e dell’azienda in cui sono diventano leve di crescita primarie per una organizzazione che punta a restare competitiva sui mercati internazionali», continua Fariselli.

Aspetti non trascurabili soprattutto alla luce del fatto che oggi, stando a una ricerca condotta dalla società di consulenza Gallup, solo il 5% dei lavoratori italiani si sente ingaggiato sul lavoro, una delle percentuali più basse d’Europa.  Demotivazione che porta ad assenze frequenti, giorni di malattia e scarso rendimento sul posto di lavoro.  Studi dimostrano che il disimpegno dei lavoratori può ridurre la produttività dal 20% fino al 40% in alcuni casi estremi. Ciò si traduce direttamente in opportunità di business perse sotto forma di vendite e ricavi inferiori. Per esempio, un’azienda manifatturiera con margini del 15% e ricavi annuali di 10 milioni di euro, potrebbe perdere dai 300.000 a 600.000 euro l’anno a causa della scarsa produttività se la forza lavoro è demotivata.

Poi vanno aggiunti i costi legati all’alto turnover. Secondo uno studio di Gallup sostituire i dipendenti che se ne vanno volontariamente costa in media il 150% del loro stipendio annuale. Questo include i costi di assunzione, formazione e perdita di produttività finché il nuovo dipendente non è completamente formato.  Da qui l’importanza dell’IE. «Attraverso percorsi mirati di sviluppo della intelligenza emotiva delle persone un’azienda può aumentare il suo valore complessivo perché aumenta la leadership efficace che a sua volta impatta positivamente sul coinvolgimento dei dipendenti, quindi sul buon clima organizzativo e quest’ultimo implementa la fidelizzazione e la retention, non solo dei dipendenti ma anche dei clienti. Una catena del valore dell’intelligenza emotiva, ampiamente dimostrata da ricerche e studi», dice Fariselli.

IE più importante del QI

Non a caso le aziende con alte performance hanno una serie di caratteristiche comuni relazionate con l’intelligenza emotiva, come comprensione interpersonale, franchezza, autoconsapevolezza del team, autovalutazione responsabilità e apprendimento costante. Per costruire un’organizzazione emotivamente intelligente, è essenziale concentrarsi su questa competenza fin dalle fasi di recruiting di nuovo personale.

Le aziende che puntano ad avere alte performance in fase di selezione di personale non devono puntare ad «assumere i “migliori” in assoluto, ma guardare nella propria azienda chi occupa la posizione per cui si sta facendo la ricerca, o l’ha occupata in passato, individuare il 10% dei top performer, confrontarli con gli average performer e scovare le abilità e competenze che i top performer hanno, e gli average performer non hanno» suggerisce Goleman, che definisce questa tecnica competence modeling. «Molte aziende la applicano, specialmente per selezionare il top management. Ho avuto accesso ai dati di oltre 200 di questi processi di selezione, e ho riscontrato che, per incarichi di tutti i tipi, le skill di intelligenza emotiva sono due volte più importanti di quelli tecnici o dell’IQ», ha confidato l’esperto.

Come svilupparla in azienda

Già ma come svilupparla in azienda? Attraverso percorsi di training coaching o mentoring che mirino allo sviluppo delle competenze emotive relazionali. «Percorsi che vanno verticalizzati su obiettivi e bisogni organizzativi specifici come la gestione delle persone o del cambiamento, lo sviluppo di creatività, di innovazione», afferma Fariselli. «L’intelligenza emotiva, infatti, è una competenza che può essere collegata ai vari bisogni organizzativi».

Ma esistono anche percorsi di certificazione personale di metodi e modelli di intelligenza emotiva per sponsor interni all’organizzazione. «In questo caso l’azienda deve individuare delle persone interne che possono essere dirigenti o manager Hr riconosciuti come esperti interni di Intelligenza Emotiva. Loro poi si occuperanno di misurarla attraverso appositi assessment che stabiliscono eventuali aspetti da migliorare e di seguito analizzino il loro trend», conclude Fariselli.

A scuola di IE

Anche per affrontare i problemi di ansia e poca socialità dei nostri ragazzi adolescenti lo sviluppo dell’intelligenza emotiva è una buona pratica. Non a caso sono diverse le scuole che hanno iniziato a progettare percorsi di formazione per docenti che dovranno poi interfacciarsi con i giovani in aula. «Nell’antica Grecia c’era la cultura di affinare la mente dei giovani. Oggi, invece, la società è più orientata alla performance e alla competizione e questo spesso crea insoddisfazione tra i giovani e alimenta la loro ansia», dice Manuel Caviglia, responsabile area education di Six Second Italia.  «Quale luogo migliore se non la scuola per formare i cittadini di domani, quelli destinati a traghettarci verso un mondo più sostenibile ed etico. Educarli all’apertura verso l’altro, al rispetto, ad avere una maggiore consapevolezza di sé, delle proprie emozioni e valori è un nostro dovere. In un mondo in profondo cambiamento la scuola non deve dare solo cultura ma anche sviluppare nei ragazzi qualcosa a un livello più intimo che poi consenta loro di attivare una serie di mutamenti nella società. In questa direzione la IE può essere facilmente integrata con i programmi didattici». Con il risultato di creare una relazione più proficua tra insegnanti e ragazzi e di dare vita a un clima di benessere e non di stress, paura e giudizio. «Educati a questa sensibilità, da migliori scolari diventeranno poi lavoratori migliori e genitori migliori», conclude Caviglia.