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Sessualità e disabilità: tabù da sfatare

Nuovo appuntamento con la rubrica Spazio Psicologico in collaborazione con l’associazione Psicologi Liberi Professionisti

Miriam Caridi – Psicologa e Psicoterapeuta – Socia PLP

 

“La persona con disabilità non ha in sé le capacità necessarie per imparare la sessualità”.

“La persona con disabilità non ha gli stessi bisogni, desideri e sentimenti della persona normodotata”.

“La persona con disabilità non ha impulsi sessuali controllati e di conseguenza manca di inibizione e indulge in comportamenti immorali”.

NIENTE DI PIU’ FALSO!

Nell’immaginario collettivo le persone con disabilità vengono viste come eterni bambini, quasi asessuati, oppure come iper-sessuati e molto spesso si pensa che educarli alla sessualità possa stimolarle eccessivamente e indurle in attività sessuali che altrimenti non metterebbero in atto.

Questa convinzione sembrerebbe essere il risultato di una visione della sessualità che è spesso idealizzata e stereotipata e che esclude coloro che non si allineano ad uno specifico modello fisico e mentale. Vivere una sessualità appagante è, invece, un diritto che accomuna ogni essere umano. È un diritto uguale per tutti i cittadini, senza differenze legate all’orientamento, all’identità di genere, ai “gusti” sessuali e alle condizioni personali e sociali.

Per educare persone con disabilità alla sessualità non dovrebbe essere necessario pensare a modelli “speciali”, ma si potrebbe fare riferimento ad un modello di educazione “tipico”, su misura del singolo, attraverso l’utilizzo di stili e modalità appropriate alle esigenze e ai limiti personali.

Per ottenere ciò dovremmo iniziare a riconoscere come tutti, indipendentemente dalle condizioni fisiche e mentali, abbiano bisogno di esercitare il proprio diritto di amare ed essere amati, di provare emozioni, di desiderare l’intimità e le coccole, di esprimere e vivere appieno la propria dimensione affettiva e sessuale.

Risulterebbe fondamentale lavorare, in primis, sull’individuo stesso, rafforzando la consapevolezza del proprio corpo e la propria identità sessuale, dando gli strumenti adatti per sviluppare competenze e gestire le relazioni intime, accrescendo il riconoscimento delle emozioni e le norme di comportamento sociale adeguato.

Parallelamente bisognerebbe lavorare con i caregivers, fornendo loro sia informazioni utili per conoscere e comprendere il significato dei gesti, delle parole, degli atteggiamenti dei propri figli e sia strumenti e soluzioni adeguate per gestirne al meglio la sfera affettiva e relazionale. L’obiettivo dovrebbe anche essere quello di aiutarli a superare le molteplici paure e preoccupazioni legate alle occasioni di incontro con l’altro, spiegando loro che non parlare di sessualità equivarrebbe a legittimare i propri figli ad avere condotte a rischio e che, frustrare costantemente un bisogno di piacere, equivarrebbe solo a generare ansia e comportamenti aggressivi.

Non meno importante sarebbe l’intervento sul contesto sociale, sensibilizzando tutta la comunità e promuovendo un dialogo aperto e onesto sull’argomento.

Sebbene la sfida sia grande, risulta doverosa. È tempo di affrontare questi tabù e di riconoscere che la sessualità nelle persone con disabilità non è un “problema” da risolvere, ma una dimensione dell’esistenza da comprendere, accettare e sostenere. In questo modo, potremo avanzare verso una società più giusta ed inclusiva, dove ogni individuo è valorizzato nella sua unicità e diversità.