PLP

Il nemico ritrovato

Nuovo appuntamento con la rubrica Spazio Psicologico in collaborazione con l'associazione Psicologi Liberi Professionisti

Antonio Zuliani Psicologo e Psicoterapeuta membro del CEN PLP

Elisa Mulone Psicologa e Psicoterapeuta Presidente Nazionale PLP

 

In questi giorni sembra che i governi europei stiano ritrovando una nuova unità. Noi stessi stiamo diventando sempre più solidali e disponibili all’accoglienza a fronte di flussi migratori che fino a poche settimane fa ci inquietavano. Gran parte del merito di tutto ciò va attribuito al “grande nemico”.

La storia dell’umanità è stata caratterizzata dalla presenza di “nemici”. A volte singole persone, a volte categorie, altre volte interi popoli o etnie.

Avere un nemico è importante perché ci aiuta a definire la nostra identità, tanto che se il nemico non c’è siamo spinti a costruirlo. In psicologia sociale si sono studiati a fondo i processi di categorizzazione sociale, che sono alla base di tutti pregiudizi, e le dinamiche tra ingroup e outgroup. Lo psicologo sociale Tajfel ha descritto il fenomeno dell’”ingroup bias”, ovvero il processo attraverso il quale si manifestano sentimenti e comportamenti positivi nei confronti di persone appartenenti al gruppo con cui ci identifichiamo (ingroup) e sentimenti e comportamenti avversi nei confronti delle persone appartenenti al gruppo opposto (outgroup), anche quando le differenze sono minime e, addirittura, in contesti sperimentali in cui l’attribuzione ai gruppi avveniva sulla base di criteri banali come la preferenza per un artista piuttosto che un altro. Un altro fenomeno interessante derivante dai processi di categorizzazione sociale riguarda l’omogeneità dell’outgruop, ovvero la credenza che “loro sono tutti uguali”.

Avere un nemico serve a proiettare su di esso l’ombra, definita da Jung come il lato oscuro della nostra personalità.

I due minuti d’odio descritti da Orwell nel suo “Grande fratello”, narrato nel suo libro “1984”, ne sono un’efficace e significativa descrizione, tanto che il protagonista, Winston, si accorge che la comparsa sullo schermo del nemico del popolo, Goldstein, trasforma ognuno dei presenti “anche contro la loro stessa volontà… in un paranoico urlante e sghignazzante”.

Questa è la forza compattante del nemico del quale fatichiamo a fare a meno, tanto che gli stessi progressi della civilizzazione sembra non riescano a far prescindere l’essere umano da questo bisogno.

Lo dimostra il fatto che nonostante, nel 1955 Albert Einstein e Bertrand Russel scrissero un appello firmato da una decina di premi Nobel per raccomandare il disarmo nucleare, chiedendo proprio di “ragionare in quanto membri di una specie biologica che rischia di estinguersi”, il disarmo non è mai stato attuato.

Se questa è una spinta interna con la quale dobbiamo fare i conti, possiamo ricercare delle strategie per alleggerirne la forza.

Non si tratta di illuderci che il bisogno del nemico possa essere cancellato, né farcelo diventare amico ma, certamente, prendere consapevolezza dei processi sopracitati che ne stanno alla base in modo da non renderlo così onnipotente da condizionare ogni nostra scelta.

Le strade sono due. Quella di chiederci se quel nemico ci minaccia veramente o, come ci insegna la pagina citata da Orwell, qualcuno ha l’interesse a mostrarcelo come minaccioso, sfruttando proprio la tendenza naturale di cui parlavamo sopra.

La seconda strada è quella di cercare di conoscere l’altro, il diverso da noi. Cercare di conoscere l’altro significa mettere in discussione i clichés, senza per questo negare o cancellare quello che ci differenzia da lui. Mettere in discussione i clichés serve per vedere gli altri con meno pregiudizi e diventare, di conseguenza, più tolleranti. Difficile: senza dubbio! Possibile? Solo con l’apporto condiviso di tutti e allenando, metaforicamente, una visione più periferica e meno centrale.