Europa, si aprono le danze

Tra circa sette mesi, i cittadini europei saranno chiamati alle urne per eleggere i membri del Parlamento. Che, a propria volta, nominerà la presidenza della Commissione, i vari commissari e altre istituzioni, politiche ed economiche cruciali per il vecchio continente. I primi sondaggi vedono favorita Ursula von der Leyen, che potrebbe essere insidiata dal francese Breton e l’olandese Rutte. Il posizionamento dell’Italia e l’incognita della politica industriale Ue

di Marco Fraquelli – da il Libero Professionista Reloaded #18

 

Nel 1992, Francis Fukuyama, politologo nippo-americano generalmente accostato alla corrente dei cosiddetti Neocons (da cui però ha preso le distanze), pubblica la sua opera più famosa, La fine della storia e l’ultimo uomo, in cui lo studioso, celebrando, per così dire, l’ormai definitivo tramonto della Guerra fredda, sosteneva che la diffusione del modello democratico e liberale, il capitalismo e lo stile di vita occidentale avevano decretato in qualche modo il termine del processo di sviluppo socio-culturale dell’umanità e, quindi, si erano imposti come modelli definitivi di governo, politico ed economico, in tutto il mondo. Qualche anno dopo, nel 1996, un altro politologo americano, Samuel Huntington, aveva pubblicato l’altrettanto celebre Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (estensione di un saggio pubblicato nel 1993 su “Foreign Affairs”) dove, invece, in aperta antitesi a Fukuyama, sosteneva che l’eredità della Guerra fredda sarebbe stata una contrapposizione non più, e non solo, tra realtà politiche, bensì tra realtà culturali e religiose. Tra civiltà, appunto.

 

Dal bipolarismo al quadripolarismo

Va detto che né Fukuyama (che, per la verità, nel 1996, con Fiducia, ha un po’ modificato le sue tesi, ma senza riscuotere altrettanta attenzione), né Huntington c’hanno preso fino in fondo. Quello a cui abbiamo assistito, e stiamo assistendo, è un po’ diverso, e un po’ più complicato, perché se un tempo, dal punto di vista geo-politico mondiale, ci si trovava a dover ragionare in termini di bipolarismo, oggi dobbiamo parlare almeno di un “quadripolarismo”, per di più a propria volta molto articolato al suo interno. Mi riferisco al “blocco” America-Europa (con gli Stati Uniti sempre meno coinvolti nella tutela politica ed economica del “vecchio continente”), la Russia, ormai sempre più vocata a guardare all’Asia come partner privilegiato, sia politicamente che economicamente, la Cina (che oltre a “mostrare i muscoli” in eterna competizione con gli USA, vedi la vicenda Taiwan, sta soprattutto esibendo un efficace soft-power, per esempio con la conquista di porti, aziende, industrie, ecc. in Africa e in Sudamerica), e i cosiddetti Brics, che da cinque (i tradizionali Russia, Cina, Brasile, India e Sudafrica) comprenderanno, dal gennaio 2024, diversi altri “attori” – Argentina, Egitto, Etiopia, Emirati Arabi Uniti, Iran, Arabia Saudita -, offrendo al cosiddetto Sud del mondo (che oggi conta almeno 130 Paesi e rappresenta l’80% della popolazione mondiale) un ruolo sempre meno secondario nello scacchiere politico ed economico mondiale.

 

Crisi “antiche” e nuove sfide

Queste premesse possono essere utili a comprendere il quadro non esattamente lineare e per nulla statico nel quale l’Europa si appresta, tra circa sette mesi, a eleggere (saranno le prime elezioni post-Brexit) i suoi organi di governo. Nel prossimo mese di giugno, infatti, i cittadini europei dovranno eleggere i loro membri rappresentanti (720) del Parlamento transnazionale, che, a propria volta dovrà nominare alcune figure chiave in campo politico ed economico, a cominciare dalla presidenza della Commissione Europea (l’organo esecutivo). Sarà poi nominato il Consiglio Europeo (il Consiglio dei Ministri) e quindi i vertici delle varie Commissioni e via via delle varie istituzioni. Sarà con questa “rinnovata” impalcatura che l’Europa dovrà affrontare – al netto delle drammatiche tensioni che stanno pervadendo il panorama internazionale, dalla guerra russo-ucraina al conflitto israelo-palestinese – le grandi, e in buona parte nuove, sfide che ci attendono nel prossimo futuro, dalla gestione di una politica estera davvero comune e più autorevole a una difesa più integrata ed efficace, da una condivisa politica del clima a quella energetica, da quella fiscale alle scelte di spesa pubblica, dalla ricerca e innovazione tecnologica a quella della gestione delle problematiche migratorie e di nuovi rapporti, per esempio, con il continente africano, e molte altre ancora.

 

Tensioni esterne e interne

Tutti gli osservatori sono concordi sul fatto che – salvo sconvolgimenti che nessuno può prevedere a così tanta distanza di mesi, ma che appaiono improbabili – le prossime elezioni europee non potranno che confermare l’attuale assetto di governo: l’unica maggioranza possibile, insomma, sarebbe quella attuale, la cosiddetta “maggioranza Ursula” (ovviamente il riferimento è alla attuale presidente della Commissione Von der Leyen), con socialisti, popolari e liberali. Escluse le destre populiste e i conservatori. Una maggioranza delle destre, dicono tutti i sondaggi, sarebbe improponibile. Secondo Europe Elects, per esempio (il sondaggio è del luglio scorso), conservatori e popolari, da soli, otterrebbero poco più di 250 seggi su 720. E se per assurdo si aggiungesse anche Identità e Democrazia di Marine Le Pen, ipotesi pressoché impossibile, vista l’avversione del Ppe nei confronti della presidente del Rassemblement National francese, si arriverebbe ad appena 325 eletti (nonostante, oggi le “destre” governino 11 Stati e 170 milioni di cittadini). E questo nonostante la stessa maggioranza potrebbe accusare un calo di consensi, che la porterebbe ad avere 385 parlamentari contro i 421 uscenti. Il calo, e qui non occorrono grandi analisti per interpretarlo, potrebbe essere dovuto ad alcune tensioni che hanno coinvolto lo stesso Parlamento europeo (lo scandalo di corruzione che lo scorso inverno ha colpito il gruppo dei Socialisti e Democratici), e, soprattutto, le tensioni interne alla Germania che, alle prese con una recessione economica senza precedenti, oltreché con le problematiche migratorie (che l’hanno anche esposta ad alcune tensioni internazionali, per esempio con l’Italia), vede crescere in maniera significativa, al proprio interno, il peso elettorale dell’estrema destra (l’AfD, Alternative für Deutschland, partito in odore di neonazismo), che, alle recenti elezioni nei ricchi Lander di Baviera e Assia ha raggiunto una più che lusinghiera affermazione (18,4 e 15%).

 

Una poltrona per tre

Altrettanto probabile, salvo clamorosi imprevisti, dovrebbe essere il “bis” di Ursula von der Leyen, proveniente dal partito conservatore moderato CDU (lo stesso di Angela Merkel). A suo favore giocherebbe sostanzialmente il suo pragmatismo (che gli avversari definiscono per la verità come opportunismo) che le ha consentito sin qui di raccogliere consensi trasversali (dai Verdi ai liberali ai popolari, e persino, in alcune occasioni, dai conservatori dell’Ecr) sostenendo “cause” piuttosto stridenti tra loro, come il Green Deal e il sostegno ad agricoltura e industria. L’unico che potrebbe minacciare la sua rielezione è un altro conservatore moderato, il francese Thierry Breton, già ministro delle Finanze con Jacques Chirac, ma anche imprenditore di successo nel settore del digitale e ora Commissario europeo al Mercato Interno e all’Industria, poltrona offertagli proprio da Ursula von der Layen nel 2019, dopo che la politica tedesca ebbe la meglio su di lui (all’epoca sostenuto direttamente da Emmanuel Macron). Notoriamente molto ambizioso, Breton potrebbe riprovarci. Se venisse nominato, probabilmente il suo “stile” non si discosterebbe molto da quello della von der Leyen, semmai si assisterebbe a un rafforzamento della Francia in quell’asse franco-tedesco che, nel bene e nel male, ha sin qui fatto pesare la propria leadership europea. Ci sarebbe, infine, un terzo potenziale candidato, l’olandese Mark Rutte (già presidente del Consiglio europeo ed ex premier dell’Olanda), anche lui liberal-conservatore. La sua visione politica, tuttavia, esprime una cultura e un approccio tipici dei cosiddetti “Paesi frugali”, o anche “nordici” o “anseatici” (Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia, Repubbliche baltiche e Austria) che, negli anni, hanno dato vita a contrapposizioni anche aspre con le altre “famiglie” politiche europee, creando attriti un po’ con tutti, dalla Francia all’Italia, dalla Germania alla Spagna, ma anche Polonia e Ungheria, pur su temi differenti.

 

Il posizionamento dell’Italia

In questo quadro, come si collocherebbe l’Italia, e quale ruolo potrebbe svolgere? Intanto qualche dato (ancorché puramente previsionale): secondo gli ultimi sondaggi, per esempio quello di Swg dello scorso mese di maggio, l’Italia registrerebbe i seguenti risultati: Fratelli d’Italia, 25 seggi; Partito Democratico, 19; Movimento 5 Stelle, 14; Lega, 8; Forza Italia, 6; Azione, 4. Ma il posizionamento dei singoli partiti e delle singole formazioni è poco significativo. È chiaro che il ruolo dell’Italia in Europa, e il suo “peso” politico, si misureranno a livello complessivo di Paese, e quindi di scelte strategiche. È del tutto ovvio, e legittimo, che ciascun partito, ciascun movimento potrà esercitare, in totale libertà e autonomia, la propria attività parlamentare, ma al di là di questo, i nostri partiti dovranno garantire una politica comune almeno di fronte alle scelte che potranno avere un impatto importante sul nostro sistema Paese. Dovranno impegnarsi, al di là e al di sopra di ogni specifico interesse, per garantire all’Italia un posizionamento autorevole. Questo non certo per smanie di leadership, ma per poter dare alla politica continentale un efficace contributo, accreditando il nostro Paese come membro credibile e affidabile. E, soprattutto, portatore di una visione di lungo respiro. “L’Italia” ha detto di recente il residente Sergio Mattarella «non sia un passeggero del treno Europa del quale controllare i titoli di viaggio, ma ne sia uno dei conduttori, un artefice insostituibile».

 

La centralità dell’industria

Peraltro, poter svolgere il ruolo di “conduttori” ci garantirebbe anche un’adeguata forza “contrattuale” per affrontare con successo, e in modo trasparente, le molte problematiche che, se non superate, potrebbero condizionare la nostra vita, presente e futura. Pensiamo, per fare un solo esempio, al tema dell’economia, che può condizionarne la stessa tenuta politica. Il Pnrr e il Mes, e a tutta la serie di iniziative e istituti in discussione e in fase di applicazione c’entrano poco; il nocciolo del problema è più ampio e generale. Al di là del ruolo dei servizi (anche professionali) nel quadro generale dell’economia italiana, non possiamo disconoscere l’apporto che l’industria dà al nostro Pil, se è vero che l’Italia rimane saldamente il secondo Paese manifatturiero europeo dopo la Germania. Un posizionamento che va difeso e tutelato. Eppure, le politiche europee non sembrano particolarmente sensibili a questo tema. «Gli anni da cui veniamo, per quanto riguarda le scelte europee sull’industria, sono stati molto difficili» ha detto Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, l’associazione confindustriale che riunisce i siderurgici italiani, all’assemblea di categoria del maggio scorso. «Un’Europa tutta concentrata sulla finanza, sulla disciplina fiscale, sul cambiamento climatico è sembrata non avere alcuna attenzione né passione per l’industria manifatturiera e in particolare per quella di base. Un’impostazione per così dire nordica, di Paesi ormai senza industria, in particolare Olanda e Danimarca, che importano tutto, che per questo declinano spesso un mercatismo estremista e che sono ideologicamente votati a politiche di transizione energetica estreme. C’è, latente, un deficit di cultura industriale o addirittura un pregiudizio anti-industriale che causano incoscienza o insofferenza rispetto al rischio di scenari di deindustrializzazione in Europa; scenari che invece si stanno realizzando per l’insipienza delle politiche comunitarie nell’indifferenza generale».

 

Il caso BEI

Quelle del presidente Gozzi non sono parole che esprimono una antiquata visione economica, né, tanto meno, una difesa “pelosa” della propria industria di appartenenza, rivelano invece una sensibilità e una visione di lungo respiro che i nostri politici europei dovrebbero sposare e promuovere, facendo sentire la loro voce autorevole. Un caso esemplare e concreto, ma anche “imminente” è quello della BEI, Banca europea per gli investimenti. La Bei, nata per promuovere gli obiettivi dell’Ue attraverso finanziamenti, garanzie e consulenza a lungo termine, entro la fine dell’anno dovrà eleggere una nuova figura che prenderà il posto del tedesco Werner Hoyer, presidente in carica dal 2012. Per la sua successione sembrano esserci due favoriti: la danese Margrethe Vestager, vicepresidente esecutivo della Commissione e già commissaria europea alla concorrenza, e Nadia Calviño, già ministra dell’economia e vicepremier spagnola. Con la prima decisamente davanti. Ci sarebbe anche il nostro ex ministro delle finanze del governo Draghi, Daniele Franco, ma difficilmente l’Italia avrà la forza di farlo eleggere. Ebbene, proprio Margrethe Vestager, e il suo braccio destro, e capo della Direzione Concorrenza, il belga Pierre Régibeau, sono stati, di fatto, gli dei ex machina della politica economica e industriale europea degli ultimi anni. In un’intervista a un quotidiano Régibeau, rispondendo sul rischio di deindustrializzazione europea, sostiene che «Salvo ragioni di sicurezza non c’è alcuna valida ragione per voler mantenere alcune attività economiche in Europa», che se alcune industrie spariscono è un fatto naturale, e che tutto (dall’acciaio alle torri eoliche) si può sempre comprare dove costano meno, per esempio in Indonesia.